sabato 10 marzo 2012

ANDREA DE LIONE MAESTRO DI SCENE BUCOLICHE

Un altro pittore napoletano del ’600

A partire dal 1635, anno della permanenza a Napoli del Grechetto e per un lungo periodo, probabilmente nel corso di un ipotetico soggiorno romano di Andrea, in parte segnalato anche dal De Dominici, viene a crearsi uno stretto rapporto tra il De Lione ed il pittore genovese. A tal uopo, indicativo di questa influenza è la considerazione che quasi tutte le opere “bucoliche” dell’artista partenopeo erano state in precedenza assegnate al Castiglione e solo dopo anni hanno trovato una corretta attribuzione in linea con quanto riferito negli inventari di antiche collezioni private, che ci parlano di un pittore narratore di favole.
Preziosità di colori ed un’animazione della scena rappresentata sono le caratteristiche che sottendono alle principali opere di ambientazione pastorale del De Lione, alcune veri e propri capolavori, come il Viaggio di Giacobbe, conservato a Vienna, il Venere ed Adone già a New York ed il Giacobbe in lotta con l’angelo del Prado, tutti dipinti firmati o documentati che hanno permesso poi di aumentare il suo catalogo con altre notevoli opere come il Tobia che seppellisce i morti, già i collezione Czernin ed oggi al Metropolitan e tre tele conservate al Prado: un altro Viaggio di Giacobbe, un Sacrificio di Noè ed un Elefanti in un circo romano.
In questo settore della sua produzione, che negli ultimi anni si accresce sempre più, quasi a superare gli esemplari con scene di battaglia, per i quali era giustamente famoso per le fonti antiche, si avverte palpabile, oltre all’influsso del Castiglione, anche la feconda lezione del Poussin neo veneto e di tutto quello ambiente romano, che tra il 1630 ed il 1650, viene rielaborando il classicismo del francese presente nella città eterna ed il barocchismo di Pietro da Cortona. Un intreccio così serrato da aver indotto la critica più avvertita, composta tutta da studiosi stranieri dal Blunt al Soria ed infine la Newcome, ad ipotizzare un lungo soggiorno romano di Andrea, che i documenti non hanno ancora dimostrato, essendo mancata fino ad oggi una ricerca specifica tra gli stati delle anime delle parrocchie della capitale.
Il vero referente per Andrea è il Grechetto “con la sua materia intensa e grumosa, i raffinati accordi cromatici, l’esuberante profilo della sua qualità pittorica anche e soprattutto nell’esecuzione di animali e quella sua stessa capacità di incuriosirsi e di guardare oltre con libertà, da renderlo un pittore attraente al cui cospetto non resistono gli occhi vispi del De Lione, affascinato certamente anche dalle sue molteplici sperimentazioni calcografiche.
Al genovese va ricondotta l’atmosfera preziosa e delicata in cui sono campiti e messi insieme i colori, inseguendo un gusto raffinato e vivace, mentre a Poussin si deve l’impostazione classica e severamente di profilo dei volti, oltre all’impaginazione e al paesaggio idealizzato del fondo.
Una visione arcadica della natura che qualche volta Andrea spinge verso forme più vere, dove i passaggi del clima e del tempo diventano percettibili e i profili umani riconoscibili” (Ivana Porcini).
Sul tema del Viaggio di Giacobbe, episodio narrato nel Vecchio Testamento, il De Lione si cimenta più volte, a partire dal celebre dipinto (01) conservato al Kunstistoriches di Vienna, a lungo ritenuto del Castiglione, fino a quando il Longhi non scoprì la sigla ADL su di una giara posta al centro della composizione.


Taluni autori hanno pensato che un titolo più corretto possa essere Partenza, più che Viaggio di Giacobbe, mentre Spike ha ipotizzato che il quadro si riferisse alla Trasformazione delle acque amare di Marah in dolci (Esodo 15, 23 – 25). In ogni caso si tratta di un episodio biblico rivisitato in ambiente pastorale, intriso da una rappresentazione della natura romantica e piena di vita, resa con delicati accordi cromatici, dall’arancio scuro al verde primaverile, dal giallo intenso al blu, dal rosso terroso al bruno ruggine.
La certezza dell’autografia ha permesso poi di attribuire all’artista altre tele dello stesso soggetto, identiche nella messa in scena e nella tavolozza, come quella del Prado (02), anche essa a lungo assegnata al Grechetto, presente in un catalogo del museo già nel 1666, una (03) nella Gemaldegalerie di Dresda ed un’altra (04) nella collezione Del Banco di Londra.



La tela madrilena, pur derivando dai modi pittorici del Castiglione e del Poussin, è marcata da alcuni caratteri tipici del De Lione come la gestualità dei personaggi e la definizione minuziosa degli alberi e del fogliame. Ad essa è da collegare la ben più modesta tela raffigurante Pastori e i loro greggi del museo del Sannio, nella quale assistiamo “ad un progressivo rischiararsi dei colori e ad una maggiore apertura spaziale” (Compagnone) e la mediocre Scena pastorale o Esodo dei depositi di Capodimonte.
La tela londinese, viceversa, si differenzia dalle altre per la chiara presenza di figure poussiniane e per una maggiore attenzione al dato naturalistico, come ha sottolineato giustamente la Newcome.
A questi quadri sottende un disegno preparatorio con Giacobbe che guida le greggi di Labano, esitato in una vendita Christie’s del marzo 1973, che, pur con alcune differenze compositive, svolge lo stesso tema pastorale con il tratteggio duro ed angoloso tipico della grafica di Andrea.
Il reperimento poi in una collezione privata di New York di un dipinto, in precedenza presso la Stafford House, firmato e datato 1633 dal Castiglione e quasi identico alla tela del De Lione conservata a Vienna, ha permesso di conoscere con esattezza la fonte ispirativa per il pittore napoletano ed ha permesso una datazione della sua replica… Infatti si può ipotizzare che l’originale sia stato visto o a Roma, nel corso di un non documentato viaggio di istruzione o dopo il 1635, data della sosta napoletana del Grechetto.
Una recente aggiunta al catalogo del De Lione è costituita da un’ennesima versione del Viaggio di Giacobbe (05), anche questa siglata, presentata dall’antiquario Napoli nobilissima in una retrospettiva sull’artista organizzata nel 2008 presso la sede della galleria.

La tela riunisce due episodi dell’Antico Testamento: il viaggio e sullo sfondo in secondo piano, la lotta tra Giacobbe e l’angelo, un episodio a cui Andrea ha dedicato uno dei suoi capolavori (06), conservato al Prado e tappa fondamentale del suo percorso, perché oltre alla firma, in passato, si leggeva anche la data: 1670 o 76.

Il rapporto col Grechetto è molto stretto soprattutto nella definizione degli animali, nei colori terrosi molto carichi e nell’ammassarsi delle figure in primo piano.
Al centro della composizione sono raffigurati una cesta, un baule ed altri oggetti, un vero e proprio brano di natura morta,”un ritaglio di vita rubato alla storia e indagato con lucida curiosità” (Dario Porcini), oltre ad una maiolica napoletana sulla quale compare la sigla ADL, identica a quella del dipinto viennese.
Ed infine vicini allo stesso tema segnaliamo, dall’archivio di Federico Zeri, un inedito Giacobbe e la sua famiglia si recano in Egitto nella collezione Sasso di Roma ed il Giacobbe ed il gregge di Labano (07) a Los Angeles nel County museum of art.

Un altro tema caro al De Lione è quello di Venere ed Adone, ripetuto più volte, raggiungendo il vertice nel dipinto già a New York in collezione Lanfranchi Moffo, firmato per esteso, uno dei quadri più belli del Seicento napoletano, con il suo paesaggio dorato che richiama a viva voce il Giordano neo veneto (08).

Presentato da Causa senza commento nella sua pregevole esegesi sulla pittura seicentesca dal naturalismo al barocco, nella quale il sommo napoletanista dedica solo qualche rigo distratto al nostro pittore, la tela è stata poi presentata a Londra alla grande mostra da Caravaggio a Luca Giordano con una esaustiva scheda della Creazzo.
Ambientato in un vasto scenario naturale il momento del commiato tra Venere ed il giovane cacciatore rappresenta il fulcro della narrazione, con la dea, dal sensuale corpo discinto, che cerca disperatamente di trattenere presso di sé Adone, ansioso di partire per una battuta al cinghiale nella quale troverà la morte. Ma intorno a questo evento drammatico domina una natura lussureggiante piena di mistero, con i tronchi intrecciati e la fitta vegetazione indagata con pennellate eleganti, mentre a terra si possono ammirare stupendi brani di natura morta, a simboleggiare probabilmente il risveglio fecondo della natura dopo la morte.
Il referente mitologico del racconto è Ovidio (Metamorfosi, pag. 529 e sg.) quello pittorico è Tiziano, che dipinse varie volte questo soggetto, mentre il De Lione non prende ispirazione da nessuna delle tele che il Poussin dedicò a questo soggetto, ad eccezione del puttino con un involto tra le braccia, prelevato letteralmente da un’opera del pittore francese.
La figura esuberante di Adone deriva da prototipi falconiani, mentre le imponenti quinte arboree richiamano alcuni esempi dal Castiglione.
Sullo sfondo si apre un luminoso orizzonte, a dimostrazione del pennello di un valente paesaggista, che sa amalgamare antiche favole, come ci ricordano alcuni inventari napoletani, in lussureggianti ambientazioni boschive, attento ai problemi della luce, al dinamismo dei corpi ed alla vivacità ed allegria dei colori, distillati con una tavolozza chiara e raffinata.
La critica propende per una collocazione cronologica tarda,”la vastità delle aperture spaziali, la luminosità dell’insieme, il mantello in basso intriso di luce e le splendide nature morte realizzate con una pennellata succosa e libera richiamano da vicino la pittura napoletana intorno alla metà degli anni ‘50” (Creazzo).
Un’altra versione (09) del tema è stata presentata alla mostra napoletana su Micco Spadaro tenutasi nel 2002, eseguita, a parere di Spinosa, tra gli anni Trenta e Quaranta.

Un’opera giovanile fortemente influenzata dal Poussin nell’impianto della scena silvestre e nei tanti amorini che fanno corona ai due focosi amanti, posti sotto un drappo rosso vermiglio, che poco ricopre le loro bollenti effusioni.
Anche qui come nella più celebre tela prima illustrata sono presenti rami contorti e rocce aguzze, ma soprattutto si ripete, anche se più modesto, un inserto di natura morta con un cinghiale, un cervo, una volpe, una lepre ed altra selvaggina, ad esaltare la fama di cacciatore di Adone, tutte prede dipinte con una pennellata densa di riverberi e carica di cromatismo. Non mancano spunti di naturalismo come nel putto che cavalca spavaldo un gigantesco molosso incurante della sua ferocia.
“La selvaggina in primo piano evidenzia chiaramente l’attività venatoria del protagonista, così come quei cani tenuti dai putti. Per questo tema mitologico l’artista cita tutto un vocabolario classico che si riferisce a Poussin, a partire dalla figura del dio fiume sullo sfondo a destra, fino alla statua del dio Pan, senza dimenticare le tante piccole figure dei putti dalle attitudini più varie che fanno parte integrante del racconto. Alcuni particolari non mancano di un certo umorismo, come il piccolo Cupido al centro, che tenta di lanciare una freccia in direzione di Adone o ancora il piccolo putto sul dorso di uno dei suoi cani il quale gioca nell’attesa” (Damian).
Tutti particolari pittoreschi assenti nella più celebre versione già in collezione Lanfranchi Moffo che giustificano una datazione più antica della tela, nella quale la Farina, nel confermarne la datazione al quinto decennio, ha ulteriormente precisato una serie di motivi derivanti dalle tempere a soggetto bacchico del Poussin:” Il grande drappo posto alle spalle di un’erma maschile; il putto che cavalca un cane pastore, piuttosto che un ariete, coadiuvato da un compagno; il puer che orina sul margine sinistro della scena, sebbene stavolta accompagnato da cani da caccia e da un secondo, grassoccio fanciullo, che per altro offre una ennesima, felice conferma all’attribuzione ad Andrea de Leone del putto mingens della Biblioteca di Madrid. Il grande pluteale posto alle spalle degli amanti, sebbene privo di decorazioni, sembra, poi, ispirato a quello che appare sul confine sinistro del secondo Baccanale Chigi”.
Un dipinto vicino al Venere ed Adone testé esaminato è Diana che si reca alla tomba di Endimione (010) conservato in una collezione privata inglese, il quale ne condivide lo stesso stile, la stessa ispirazione e gli stessi colori, al punto da poter essere considerato un pendant, se non fosse per le misure che sono diverse.

Il fascino della tela è legato al paesaggio misterioso che sottende all’episodio, che prende ispirazione da alcune creazioni di Gaspard Dughet, in particolare il Paesaggio con cacciatori del Cleveland museum of art o la Burrasca della Fondazione Longhi. Evidenti anche i prelievi dal Poussin neoveneto e da alcune opere di Pietro Testa.
Diana si reca verso la tomba del suo amante con un’andatura elegante e tenendo al guinzaglio un cane che compare identico, in primo piano, nel Viaggio di Giacobbe conservato a Vienna. Una profonda scollatura fa risaltare un collo sensuale ed un pallido incarnato.
La tomba di Endimione presenta un bassorilievo scolpito simile a quello del Tobia che seppellisce i morti del Metropolitan, un’opera matura del De Lione.
Solo di recente si è messa in risalto l’importanza della presenza a Napoli per quattro anni, dal 1633 al 1637, di due Baccanali di Tiziano: gli Andrii (011) e la Festa di Venere, esposti nelle sale del Palazzo Reale prima di essere spediti a Madrid e l’influsso esercitato su un’intera generazione di pittori, tra cui il De Lione.

Due capolavori del Cinquecento intrisi della più pura e felice poesia pagana.
Nel Baccanale i giochi d’amore nell’isola incantata ricca di selve, perduta nell’azzurro intenso dell’Egeo, appaiono ancora più piacevoli grazie alla polla da cui zampilla copiosamente vino.
Nella festa di Venere la dea, sebbene sia solo una statua, sembra considerare con espressione compiaciuta coloro che la festeggiano. Alcuni putti colgono allegramente i frutti, mentre altri lietamente li mangiano.
La tela raffigura il primo momento dell’amore, caratterizzato secondo i neoplatonici dal caos, mentre nell’altro dipinto gli adulti hanno raggiunto lo stadio avanzato dell’Amore - armonia con i suoi diversi quanto appetitosi frutti.
Un dipinto in stretta sintonia con gli Andrii di Tiziano è il Baccanale (012), già presso Matthiens a Londra ed ora in collezione privata svizzera realizzato dal De Lione.

La scena si svolge in un clima di caotica allegria con le ninfe che ballano discinte con i satiri, ai quali offrono generosamente da bere per accrescerne l’eccitazione.
All’orizzonte un cielo azzurro solcato da nuvole grigie di una luminosità abbacinante, sulla sinistra il fatidico putto mingens, raffigurato nel disegno conservato della Biblioteca nazionale di Madrid, del quale parleremo diffusamente nel capitolo dedicato alla grafica, in basso degli straordinari inserti di natura morta: frutta di stagione a sinistra, strumenti musicali a destra.
Nel centro della composizione una giovane fanciulla porge una coppa ad un sgraziato satiro di una bruttezza animalesca degna di nota, che gliela riempie con ostentata libidine, mentre le altre due giovinette sono alacremente impegnate, l’una in un ballo frenetico a seno nudo, l’altra a ritemprare un satiro sfinito dai ripetuti giochi erotici.
Al dipinto vanno collegati alcuni disegni preparatori: il primo conservato presso l’Istituto di cultura olandese di Parigi, l’altro nel museo di Belle arti di Orleans.
Nelle esaustive schede dell’importante galleria antiquaria londinese, che lo ha presentato al pubblico nel 1981 e nel 1986, si ipotizza che la tela potrebbe essere ispirata da un’opera perduta di medesimo soggetto del Grechetto, mentre la donna posta di spalle al centro(una chiara derivazione dagli Andrii di Tiziano, come sottolinea la Farina), dipenderebbe da un Ritrovamento di Pirro bambino, disegno passato sul mercato, di cui ne esiste uno identico nel Castello di Windsor e commentato dalla Newcome, che però ritiene il foglio cronologicamente posteriore.
La datazione più probabile è intorno al 1650, ipotesi che ha trovato consenziente anche Spinosa.
Un’altra tela strettamente collegata all’ influsso che ebbero a Napoli i due Baccanali di Tiziano è la Ninfa dormiente svelata da un satiro (013) resa nota dalla Farina con un’attribuzione al Gargiulo ed esposta l’anno successivo nella mostra monografica sul De Lione tenutasi presso l’antiquario Porcini a Napoli, nel corso della quale, operando opportuni raffronti verso dipinti certamente autografi, nel catalogo si è pensato di attribuirla ad Andrea ”per la materia pittorica più compatta ed uniforme, la costruzione più lenta ed analitica delle figure e la minuziosità con cui è descritta la vegetazione”.

Il tema della ninfa dormiente che viene risvegliata al piacere dei sensi da un voglioso satiro ha incontrato grande successo in pittura a partire dalla sua redazione xilografica presente nella Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, che vide la luce a Venezia nel 1499. In seguito numerosi pittori si sono impadroniti dell’iconografia, che permette di dipingere una giovane donna completamente nuda, senza tenere alcun conto del simbolismo neoplatonico, che ha interpretato l’incontro ravvicinato come metafora della rivelazione divina di fronte alla potenza dell’amore.
La ninfa dormiente è un prelievo letterale dalla figura posta sulla destra degli Andrii di Tiziano, Arianna, ebbra di vino, dormiente nella sua nudità spudoratamente offerta all’ammirazione, che intende trasmettere la eccitante sensazione dell’attesa, immagine radiosa alla quale si ispirarono molteplici artisti napoletani da Luca Giordano a Pacecco De Rosa.
Un particolare curioso nel paesaggio, che tradisce trattarsi della campagna napoletana, è la vite molto alta, agganciata ad alberi di alto fusto, la così detta vite maritata, la pianta femmina fragile che già gli antichi Latini, accoppiavano ad un albero robusto per renderla più prolifica, una vera rarità oggi che si può osservare soltanto nell’agro aversano.
Concludiamo il discorso sull’argomento, segnalando questo inedito Baccanale, reperito nella fototeca di Federico Zeri, di marcata ispirazione poussiniana ed oggi ad ubicazione sconosciuta.
Di incerta datazione è l’Entrata di Cristo in Gerusalemme (014), già presso Matthiens ed ora in collezione privata londinese, nella quale si palpano le sue qualità di acuto naturalista attento osservatore della realtà. Nel dipinto le grandi figure in primo piano derivano dalla lezione falconiana, mentre quelle più piccole, che degradano verso il fondo sembrano ripetere i modi pittorici di un Micco Spadaro o di un Niccolò De Simone. Sulla sinistra domina un torrione sul quale svetta la scritta SPQR segno del dominio di Roma su Gerusalemme e nello stesso tempo di un interesse del De Lione per la rappresentazione di particolari archeologici.

In alto un gruppo di angioletti, che reggono una croce, richiama la delicatezza di un Vouet o di un Mellin, mentre la costruzione delle figure ed il ruolo del paesaggio si ispirano alle creazioni del Poussin degli anni dal 1635 al 1637, in particolare il Mosè fa scaturire l’acqua dalla rupe della Galleria nazionale di Edinburgo.
Secondo Brejon de Lavergnée una tela vicina a quella esaminata è la Maddalena in meditazione nel deserto (015) di una collezione privata di Bergamo, una rarità nella produzione di Andrea, solito a rappresentare una folla e non un singolo personaggio, le cui grosse mani ricordano quelle di altre figure riprese dall’artista.

Una profonda analisi del dato reale pervade la tela, dal teschio ammonitore alla precisa definizione del fogliame sullo sfondo.
Il viso rivolto a guardare verso l’alto ed il sottinsù degli occhi sono, a nostro parere, ispirati dalla esuberante produzione del Vaccaro, specialista indiscusso nel realizzare sante in estasi con il bel girar degli occhi verso il cielo.
Anche l’Adorazione dei pastori (016), firmata per esteso della Galleria Napoli nobilissima, presenta in cielo un gruppo di angioletti svolazzanti, il quale regge un nastro con una scritta.

La tela dominata da un cielo che più azzurro è difficile immaginare, secondo la tradizione rinascimentale raffigura la Natività al fianco di antiche rovine con il Bambinello adagiato su un letto di paglia. Verso di lui si avviano pastori silenziosi portando piccoli doni, mentre in secondo piano un angelo sta portando l’Annuncio ad un gruppo di altri umili custodi di greggi.
La rappresentazione simultanea dei due eventi, comune nei secoli precedenti, è alquanto rara nel Seicento ed è probabile che il De Lione l’abbia scelta per la sua predilezione per la pittura di storia.
La datazione più probabile del dipinto è sul finire degli anni Quaranta per il palpabile influsso del Castiglione sulla primitiva lezione falconiana. Dal pittore genovese derivano infatti i colori accesi e l’attenzione dedicata al paesaggio ed alla descrizione degli animali, tra i quali risalta lo sguardo quasi umano del bue, che buca letteralmente la scena.
Anche nella Visione dell’imperatore Augusto (017) di collezione privata napoletana compare, in un cielo luminoso su una nuvoletta, la Vergine con il Bambino tra le braccia in una rarissima iconografia che attinge, con alcune varianti, alla Legenda Aurea, nella quale erano confluite le numerose leggende medioevali circa le profezie pagane sulla venuta del Messia.

In particolare nell’episodio descritto dal De Lione ci si riferisce alla visione che la Sibilla tiburtina concede ad Ottaviano, proclamato Augusto, di vedere il vero ed unico Signore degno di adorazione. In seguito a questa apparizione sorgerà sul Campidoglio la Basilica di Santa Maria in Ara Coeli.
Il Porzio ha reperito una citazione di un dipinto dello stesso soggetto e delle stesse misure, attribuito al De Lione, in un inventario dei beni di Francesco Antonio Marzio redatto a Napoli il 23 aprile 1721.
Lo studioso inoltre ritiene che la tela vada collocata. per l’allentamento dei modelli più strettamente grechettiani e per l’autonomia formale dall’ispirazione falconiana, al sesto decennio del secolo.
La tela raffigurante Europa (018) del museo di Lilla, rappresenta un interessante aggiunta al catalogo del Di Lione sul versante dei soggetti mitologici, abbastanza rari nel suo repertorio, ricco prevalentemente di temi biblici.

L’autografia è certa per la vivacità della tavolozza e per la delicatezza degli accordi cromatici, per lo spirito bucolico che pervade la narrazione, ma soprattutto perché il paesaggio sulla parte destra della composizione si ripete identico sia nel Viaggio di Giacobbe conservato a Vienna, sia nel Venere ed Adone, già in collezione Lanfranchi Moffo.
Queste similitudini ci permettono di azzardare una collocazione cronologica sul finire degli anni Quaranta, pur con tutte le difficoltà attuali a identificare un percorso temporale coerente dell’artista.
La tela risente vistosamente dell’influsso sia del Castiglione che del Poussin, dal quale il Di Lione preleva letteralmente la figura del putto in primo piano, che sta per scoccare una freccia.
Il pittore napoletano sa combinare felicemente elementi dal repertorio dei due colleghi nell’impaginazione, nella disposizione dei personaggi, nella ricerca delle verticali, nell’importante ruolo assegnato al paesaggio e nel classicismo dei volti raffigurati rigorosamente di profilo.
Un altro episodio mitologico da collegare al quadro francese è Latona che trasforma gli abitanti della Licia in ranocchie (019 ), conservata nel Palazzo Reale di Riofrio in Spagna.

Si tratta di un’iconografia veramente rara, narrata da Ovidio nelle Metamorfosi, che vede Latona con i suoi gemelli Apollo e Diana, da poco partoriti, errare senza posa con i due lattanti fino a giungere in Licia, una terra arida dell’Asia minore. Lì giunta, chiede agli abitanti da bere per sé ed i figli assetati, ma viene derisa ed insultata. A quel punto Latona, infuriata, trovandosi nei pressi di uno stagno, trasformò i crudeli contadini in ranocchie, condannandoli a gracchiare incessantemente.
Il Tobia che seppellisce i morti, del quale esistono più versioni, rappresenta nell’esemplare conservato al Metropolitan di New York (020), già presso Czernin a Vienna, uno dei più alti raggiungimenti dell’arte del De Lione.

Il soggetto è ricavato dal libro di Tobia (1 – 8 / 22) e tra le tante figure, risaltano quella di Tobia, sulla sinistra, che accenna ad un segno di benedizione e quella in alto a destra con il dito che segnala qualcosa, forse la spia che indica a Sennacherib la sepoltura dei morti.
Il dipinto è tra i primi studiati ed attribuiti al De Lione dal Blunt, nella sua pioneristica pubblicazione del 1940; in precedenza era stato assegnato prima a Bourdon e poi al Poussin. Fu lo studioso inglese a dimostrarne l’autografia, segnalando altresì le relazioni con i modi pittorici del Castiglione e del maestro francese.
In genere la critica tende a datare il dipinto al 1648, l’anno del viaggio del De Lione a Roma, citato anche dal De Dominici, quando a Roma erano presenti simultaneamente il De Lione, il Castiglione e il Poussin ed il primo quasi certamente aveva accesso alla bottega del secondo, dove ha potuto attingere ad una serie di fogli autografi o degli allievi, oggi conservati tra Chatsworth, Cleveland e la Witt collection di Londra, soprattutto l’ultimo, nel quale è presente l’idea alla base della composizione: un lungo muro (stilobate) sul quale poggiano alcune colonne e sono disposti i personaggi, per giungere poi alla stesura di alcuni disegni preparatori eseguiti dal Nostro, tra cui i più famosi sono quelli conservati presso la Kunsthalle di Amburgo, il Victoria and Albert museum di Londra (021) o quello eseguito a matita rossa del Kupferstichkabinett di Berlino (022).


Il dipinto poco differisce dai disegni preparatori, se non nella sostituzione delle vestigia architettoniche poste sulla sinistra con un arco di trionfo ispirato a quello di Druso a Roma. I panneggi blu, bianchi e rossi risaltano sul chiarore del cielo azzurro.
Blunt ritiene a ragione che le opere del Poussin a cui fa riferimento il De Lione sono state eseguite tra il 1637 ed il ’39 come il Teseo a Trezene (023) del museo Condè di Chantilly o il Passaggio del Mar Rosso.

Tra le altre versioni della Pietà di Tobia la meno ambiziosa è quella conservata nella collezione Chrysler di Norfolk, caratterizzata da una più ridotta apertura spaziale e da un minor numero di personaggi.
Un’ulteriore versione del Tobia che seppellisce i morti (024), già nota alla critica perché consultabile nella fototeca di Federico Zeri, anche se con un’indicazione sbagliata delle misure, è stata di recente presentata alla mostra Ritorno al Barocco di Napoli a confronto con il quadro del Metropolitan.

Pure questa tela è stata in passato assegnata al Bourdon, anche se essa risente meno dell’altra dell’influenza della pittura francese, ad eccezione del personaggio chinato in primo piano, intento a fissare intensamente lo spettatore, che costituisce un prelievo da un’opera di Poussin.
L’atmosfera della composizione è più intima e meno monumentale, anche se la scena rappresentata è la stessa, imperniata sull’ammonizione di Tobia, sul pietoso lavoro di sepoltura di alcuni giovani, il tutto tra architetture in rovina ed un cielo gravido di pioggia.
Il dipinto è scandito da un equilibrata alternanza di pieni e di vuoti e tutti i personaggi presentano delle fisionomie parlanti di rara intensità. I colori sono particolarmente curati senza eccessivi contrasti ed una grande attenzione è dedicata alla definizione dei nudi, alcuni statuari, a dimostrazione del fecondo tirocinio dell’artista nella bottega falconiana, dove si praticava un’accademia dedicata allo studio ed alla rappresentazione del corpo umano.
La collocazione cronologica più probabile della tela è intorno al 1648, come la precedente, sul retro un sigillo in cera rossa con un’iscrizione, ci permette di ricostruire la sua presenza nella collezione del re francese Louis Philippe Chateau d’Eu.

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