martedì 6 marzo 2012

COLLEZIONE PELLEGRINI

IL PRIVATO NELL’ARTE (COSENZA,1998)
I DIPINTI DEL SEICENTO NAPOLETANO DELLA COLLEZIONE PELLEGRINI DI COSENZA

Capolavori ed inediti del Seicento napoletano
Una delle più importanti raccolte di dipinti napoletani è la collezione Pellegrini che si trova a Cosenza. Essa è una parte di un nucleo che comprendeva nel Settecento centinaia di opere, ma anche se in parte smembrata è ricca di oltre 50 quadri di autori famosi e ricercati.
Il San Girolamo (fig. 1)

Il San Girolamo, quadro di altissima qualità, tra i gioielli della raccolta, è attribuibile con certezza a Luca Giordano nella sua fase riberesca. Nei primi anni della sua attività è a tutti noto che l’artista si rifece ai modi pittorici del Ribera e ne riprese alcuni temi iconografici di successo, come le mezze figure di filosofo, che ebbero nel Seicento una grande diffusione, non solo in Italia, perché richieste da uomini di cultura che amavano adornare i loro studi e le loro biblioteche con immagini di sapienti dell’antichità.
Molto ricercate erano anche le figure di santi per devozione privata e tra queste bisogna includere il nostro San Girolamo, il quale ci consente di verificare il grado di assimilazione della lezione del valenzano da parte del Giordano, un imprinting mai dimenticato, infatti la critica più avvertita ritiene che anche in anni maturi Luca dipinse più volte alla maniera del Ribera. Nella composizione si osserva l’abbandono del netto stacco chiaroscurale, dei bagliori folgoranti e dei fondi scuri presenti anche nel San Girolamo della Pinacoteca civica di Asolo, mentre col Profeta Balaam fermato dall’angelo del museo di Berlino condivide il tono della folta barba bianca.
Per la collocazione cronologica della tela l’ipotesi più convincente è intorno agli anni Sessanta, a comprovare il recupero di formulazioni verso le quali Luca si era orientato nei tempi della sua prima formazione. Prima di aderire anche lui alla paternità giordanesca del dipinto il Pavone aveva ipotizzato che potesse trattarsi di un prodotto della bottega riberiana ed aveva pensato al pennello di Hendrick Van Somer, uno dei suoi allievi più dotati.
Il Cristo benedicente (fig. 2)

L’altro Giordano della collezione Pellegrini, il Cristo benedicente, assegnato all’artista da Spinosa e Leone De Castris è di minore qualità e risente vistosamente dei numerosi restauri ai quali negli anni è stato sottoposto. Esso si colloca agli anni 1658 – 60, in un periodo di tangenza con l’attività di Mattia Preti, presente in città in quegli anni. Il Giordano infatti, tornato a Napoli nel 1653 dal suo viaggio di studio a Roma, Firenze e Venezia, sviluppò in senso barocco il suo stile, quindi nel decennio successivo si accostò al Preti che divenne per lui uno stimolo ed un punto di riferimento.
Nella collezione sono conservate sei quadri di forma ovale attribuibili ad un artista noto sotto il nome convenzionale di Maestro dei martirii, di questi quattro furono esposti nel 1976 nella mostra di Cosenza organizzata dalla Di Dario Guida che ipotizzò lo stesso autore.
Essi rappresentano Guarigione dello storpio, Martirio di Sant’Andrea, Resurrezione di Lazzaro, Crocefissione di San Pietro (fig. 3 –4 – 5 – 6).
Lo studio di queste tele permette di approfondire la conoscenza di quella figura ancora dai contorni indefiniti che si cela ancora sotto un nome di convenzione. Si tratta probabilmente di un nordico, collocabile stilisticamente tra i modi pittorici di Scipione Compagno e Carlo Coppola, attivo intorno al IV decennio del secolo, il cui corpus ancora esiguo è spesso ricavato escludendo l’attribuzione ad artisti dai caratteri più riconoscibili dalla critica o più frequentemente quando in un dipinto si legge lo stile di più artisti, come se ci si trovasse davanti ad un’originale esercitazione di bottega.
Inizialmente tale figura era ritenuta più arcaica rispetto all’attività di un affermato specialista del genere come può essere considerato Domenico Gargiulo, ma la comparsa recente di dipinti, tra cui da annoverare anche quelli di collezione Pellegrini, nei quali evidenti sono i prelievi letterali di personaggi, scene ed abbigliamenti lungo un arco temporale molto ampio, ha indotto ad ipotizzare un periodo molto lungo di attività o la presenza di più pittori che si nascondono sotto la provvisoria etichetta di Maestro dei martirii.
Numerose opere, anche importanti, navigano ancora incerte sotto questa denominazione convenzionale e tra esse ricordiamo il Martirio di San Gennaro del museo di Besancon, che dopo aver sopportato tre diverse attribuzioni, anche da fonti autorevoli, a Salvator Rosa, a Filippo Napoletano ed a Scipione Compagno, oggi secondo gli studiosi più avvertiti non può essere assegnato a nessuno di questi artisti più noti, perché in esso sono presenti più modi pittorici non omogenei.

Nella Guarigione dello storpio (fig. 3) Maestro dei martirii

Un esame dettagliato dei quattro dipinti permette di cogliere più compiutamente i riferimenti stilistici ed i prelievi letterali dagli artisti più importanti nella specialità dei martirii, genere in voga a Napoli nel III e IV decennio del Seicento.

Il Martirio di Sant’Andrea (fig. 4) Maestro dei martirii

Una prima constatazione è che in tutte le tele i cieli sono “spenti” e non hanno niente di quelli del Gargiulo, nei quali la gamma cromatica e le grigie nuvole trasversali orlate di rosa contro l’azzurro, costituiscono il più tipico segno di riconoscimento del pittore
Nella Guarigione dello storpio (fig. 3) è presente sulla destra una figura femminile con un bambino che denota chiaramente una derivazione da Schoenfeld, artista svevo presente a Napoli dal 1638 al 1649, i cui caratteri distintivi furono l’uso di colori chiari e tenui, la pennellata vibrante e nervosa, la luce forte e diretta, che rende evanescenti ed instabili le figure, dall’elegante modello allungato, desunto dalle stampe di Callot, inserite in ambienti fortemente caratterizzati in senso classico, simili a scene teatrali.

Nella Resurrezione di Lazzaro (fig. 5) Maestro dei martirii
Il Martirio di Sant’Andrea (fig. 4) si rifà al dipinto di analogo soggetto del Gargiulo conservato a Portici nel ritiro dell’Addolorata e presenta caratteri falconiani in alcuni personaggi come anche nella groppa poderosa del cavallo bianco in primo piano; mentre il nudo maschile ripreso di spalle, che guarda la scena e che possiamo trovare in molti altri dipinti della prima metà del Seicento, ha una chiara matrice battistelliana.
Nella Resurrezione di Lazzaro (fig. 5) i colori dei mantelli dei personaggi centrali ricordano la tavolozza del Gargiulo,
al cui stile si rifanno anche i rami e le foglie degli alberi. Interessante il dettaglio della città all’orizzonte che si apre ulteriormente con la visione di un’aspra montagna.

Crocefissione di San Pietro (fig. 6) Maestro dei martirii
Infine Crocefissione di San Pietro (fig. 6) nella è sotto gli occhi l’impressionante somiglianza tra la figura piegata in primo piano con la maglia rossa e l’analogo personaggio del Martirio di Santo Stefano di Carlo Coppola presente a Roma sul mercato antiquariale (cfr A. della Ragione – Il secolo d’oro della pittura napoletana, II vol, pag 130); rispetto alla tela del Gargiulo di analogo soggetto, conservata in collezione privata a Napoli, possiamo invece riconoscere alcune figure e la caratteristica bandiera rossa, quasi una firma nascosta dell’autore.
Le Nozze di Cana (fig. 7)

Le Nozze di Cana sono opera di un ignoto pittore fiammingo attivo a Napoli nei primi decenni del XVI secolo, un membro di quella numerosa colonia presente nel viceregno sin dai tempi della Notte di San Bartolomeo. La tela presenta elementi veneteggianti e parallelismi con le opere di Wenzel Cobergher ed Abraham Vinx.
Nei cani che si azzuffano, nei piatti, nel vassoio di frutta trapela una propensione verso la pittura di genere che potrebbe far pensare alla produzione di pittori fiamminghi documentati a Napoli nel primo trentennio come Bartolomeo Ghesenz o Pietro Fiammingo, specialisti in cacce e nature morte.Sul retro della seggiola è presente lo stemma dei Pignatelli, nobile e famosa famiglia napoletana, particolare che conferma l’esecuzione della tela in area meridionale.
Nella composizione sono evidenti caratteri precipui della pittura nordica quali la trasparenza dei calici, la rifinitura dei vassoi, la cura dedicata al cromatismo delle vesti ed ai copricapo delle donne. Altri interessanti dettagli sono costituiti dai cani che si azzuffano, il cagnolino che si affaccia sotto la tovaglia e lo splendido scorcio di natura morta in primo piano, che denota caratteri prettamente napoletani, con frutta tutta partenopea, dalle pere all’uva, ai fichi dottati, che dovrebbero far avanzare la datazione oltre il terzo decennio del secolo.
Ecce Homo (fig. 8) Ignoto
Un altro ignoto pittore fiammingo attivo tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento è l’autore di un rametto raffigurante l’Ecce Homo, un’esecuzione di buon livello realizzata con una buona conoscenza dell’anatomia sia degli arti che delle restanti parti del corpo. Notevole è la resa dell’aspetto fisico del Cristo e della sua dignità umiliata ed offesa. Di grande perizia l’esecuzione del volto con un colorito tra il bruno ed il rosa.I toni bronzei del corpo ed i bianchi del perizoma, che emerge anche in virtù del l’ombra che si addensa sotto il mantello, permettono una collocazione cronologica dell’opera, perché fanno pensare che l’ignoto autore sia a conoscenza della pittura napoletana dei primi decenni del secolo.
Natura morta (fig. 9)
La natura morta con uva, melograni, fichi e brocca è classificabile nell’ambito di Luca Forte ed il nome dell’autore più calzante è quello di Antonio Cicalese, del quale nulla ci riferiscono le antiche fonti e solo il rinvenimento di alcune sue opere firmate ci ha fatto intravedere la sua personalità, caratterizzata da una capacità di definizione volumetrica, un’abilità nella sagomatura del piano d’appoggio e nella determinazione luministica dei singoli frutti.Siamo arrivati alla determinazione di assegnare la tela in esame al Cicalese sulla base di una serie di raffronti stilistici con le poche opere certe di questo ancora poco conosciuto generista, attivo a cavallo della metà del secolo XVII, con la speranza che in futuro, se verrà alla luce qualche opera firmata, l’attribuzione possa trovare conferma.
Allegoria della Fortezza (fig. 10)

L’Allegoria della Fortezza è un’importante opera di Giovan Battista Beinaschi che risente dell’influenza del Lanfranco.L’artista piemontese è attivo a lungo a Napoli dove riveste una certa importanza per la formazione di Francesco Solimena, che per suo tramite risale al neocorregismo di Lanfranco ed ai fondamenti della pittura classicistica del secolo. Egli è ritenuto modesto come pittore di cavalletto, ove pure dimostra di aver appreso la lezione di Mattia Preti, dei cui motivi più specificamente barocchi si appropria, raggiungendo una notevole abilità come frescante.Le sue tele sono abbastanza rare ed è perciò particolarmente importante questo dipinto che viene ad accrescere il suo catalogo.
L’Allegoria della Fortezza è un’opera della fase tarda del Beinaschi relativa al secondo soggiorno napoletano, nel quale si avvale spesso della collaborazione di aiuti, quali Giovanni della Torre, Orazio Frezza e Giuseppe Fattorusso. Fa sicuramente parte di un ciclo di tele raffiguranti le Virtù, che dovettero ispirarsi a quelle realizzate per la chiesa di Santa Maria di Loreto (detta delle Grazie) dei padri Teatini, nella strada Toledo, ricordate dal De Dominici” in quanto di scurcio si bello che furono molto lodate dal nostro celebre Luca Giordano, il quale non saziavasi di mirare adattata in si picciol sito una figura al naturale con tanta proprietà; e quest’opera è dipinta con bellezza di colore operato con dolcezza”.
Pur conservando in questo dipinto il timbro scuro (valutato negativamente dal De Dominici) vivacizzato attraverso l’inserimento di figure di angeli”in bellissime e difficilissime azioni, e ben intesi nel sotto in su”, la definizione delle forme si spinge ad un rimeditato controllo che consente una equilibrata disciplina formale.Riferimenti tipologici nel percorso dell’artista si individuano in opere quali l’Annunciazione di San Bonaventura al Palatino di Roma, specie riguardo all’angelo al di sotto del Padre Eterno e qui ripreso nel sotto in su, in funzione di sostegno della Fortezza, la quale trova occasioni di confronto con le sue più meditate figure femminili di stampo dichiaratamente classicistico, non esclusa la più giovanile Adultera di collezione privata di Salerno. Per ulteriori confronti si rinvia al saggio di Mario Alberto Pavone in Prospettive,”Per Giovan Battista Beinaschi”, n.46, pag. 31 – 41 , 1986.
L’Agar nel deserto fu tra le opere più ammirate alla mostra Arte in Calabria tenutasi a Cosenza nel 1976. Il catalogo dedicò ben tre foto al dipinto che, la curatrice Di Dario Guida assegnò a Francesco Solimena.
A conclusione della rassegna Bologna, nel recensirla per la stampa (Il Mattino del 16/7 76) ritenne viceversa la tela opera del Giordano nella sua piena maturità e tale parere è stato seguito da tutti gli studiosi successivi fino a quando, progrediti nel frattempo le conoscenze, il Pavone, il cui parere è stato avallato da Spinosa, ha ritenuto, confortato da numerosi raffronti stilistici, di inserire l’opera nel corpus di Nicola Malinconico, il quale, superato il giudizio fondamentalmente negativo del De Dominici, che vedeva in lui un antagonista del Solimena, ha acquisito negli ultimi venti anni una maggiore considerazione da parte della critica, soprattutto dopo gli studi sulla sua produzione a Bergamo.
Sulla base delle nuove acquisizioni circa la produzione di tale artista è perciò possibile affermare con certezza che l’opera in questione è uno dei suoi più specifici prodotti e che trova una giusta collocazione cronologica a cavallo dell’inizio del Settecento.
Quanto osservato dalla critica in precedenza, e soprattutto nella scheda del catalogo della mostra calabrese merita opportuna considerazione, in quanto in tale occasione venivano indicate sia una base cronologica, sia una serie di riferimenti che sono stati vagliati adeguatamente proprio dal Malinconico nella fase relativa al passaggio dall’integrale continuità rispetto alla maniera del Giordano, verso un aggiornamento condotto sui modi del Solimena in Donnalbina.

Agar nel deserto (fig. 11)
Infatti è alla fase relativa alla decorazione pittorica in Donnalbina che si riallaccia il dipinto in esame, il quale presenta quei caratteri di contenimento formale e di pulizia strutturale, di impronta dichiaratamente classicistica, che il Malinconico, di riflesso dal Solimena, adottò in occasione della decorazione della volta della navata della chiesa di Donnalbina agli inizi del Settecento.
Segni di continuità nell’ambito della produzione del Malinconico sono rappresentati dall’angelo in volo, che coincide nella strutturazione con quello dell’Adorazione dei pastori di Santa Maria la Nova e della Famiglia della Vergine di San Giuseppe a Chiaia a Napoli. Il taglio del volto dell’Agar permette inoltre di confrontarlo con certezza a prototipi quali la Madonna della citata Adorazione, ma ancora più precisamente alle figure di sante che, insieme a santi prediletti dell’ordine benedettino, decorano i finestroni di Donnalbina e che troveranno ulteriore codificazione nelle Virtù delle lunette della navata di Santa Maria la Nova.
Apollo e Marsia (fig. 12)
L’Apollo e Marsia è una tela di altissima qualità e di grande suggestione, collocabile cronologicamente nell’ottavo decennio del secolo XVII; essa presenta spiccati caratteri rosiani nella definizione del paesaggio, per cui può essere avanzata l’ipotesi di assegnarla a Nicola Vaccaro in un suo momento di massima tangenza con i modi del grande Salvatore, conosciuto ed ammirato nel corso di un soggiorno romano.
La forte resa naturalistica del dipinto evoca il pennello dello stesso Ribera, che ha più volte trattato magistralmente lo stesso tema. Il ghigno di dolore nel volto di Marsia, lo spasimo straziante che riverbera in tutti i muscoli appartengono esclusivamente al naturalismo napoletano più genuino, di cui il Rosa fu uno degli interpreti più significativi. Ed è proprio a lui che si ispira la parte paesaggistica che costituisce una porzione fondamentale nell’economia del dipinto, con il classico tronco spezzato.
Il brano mitologico è di rilevante qualità nella definizione disegnativa, mentre poderosa si staglia l’atletica figura del Dio che, con rigorosa tensione, ma per nulla impietosito, compie la sua atroce vendetta ed è proprio la figura di Apollo, che presenta stringenti affinità fisionomiche con una Decollazione del Battista opera certa di Nicola Vaccaro, conservata in collezione privata.La tela è dominata dalla potenza dei colori ed incentrata nell’elegante e fine figura di Apollo, dal quale emana il riverbero di una luce intensissima che illumina il suo mantello rosso.
La rabbia e il dolore di Marsia di essere stato da Apollo vinto e legato, si rivelano in pieno in quel fosco volto, eseguito in modo mirabile, alla stregua del figliolo, il piccolo faunetto, che piange disperato allo strazio del disgraziato padre, alla base di quel tronco spezzato eseguito così minuziosamente.In passato il quadro ha sopportato ben più impegnative attribuzioni, tra cui abbastanza credibile quella di un autografo rosiano, la cui produzione a figure grandi solo da poco è stata riscoperta dalla critica, come nel caso dello spettacolare Martirio di San Bartolomeo, oggi a Vienna, di cui l’Apollo e Marsia è il corrispettivo nel mondo pagano e quello di collezione Pellegrini, impregnato di crudo realismo, presenta la figura del musicista sconfitto alternata di luci ed ombre e con le pieghe della pelle al centro del suo torace che sembrano richiamare il San Bartolomeo del museo di Vienna.
Tutta la composizione è animata da un vivace dinamismo giocato sulle diagonali incrociate e sulla circolarità determinata dal rapporto tra le due figure ed è sottolineata dal manto svolazzante di Apollo, di un rosso cupo tra le cui pieghe si intravede un rosso fuoco abbagliante, mentre il figlio di Marsia assiste attonito alla scena, alla quale sembra partecipare psicologicamente.L’influsso delle correnti pittoricistiche è già presente nella cultura figurativa partenopea quando nasce questa splendida tela, che, nello scorcio di paesaggio e nei dettagli delle foglie, dei rami e del tronco spezzato, ci offre un saggio dell’autore, Nicola Vaccaro o altri, ma senza dubbio uno dei protagonisti del secolo d’oro della pittura napoletana.

Paesaggio con vacche e pastori (fig. 13)

Il Paesaggio con vacche e pastori, una composizione di genuino argomento bucolico, fu assegnata da Leone De Castris al pennello del Gargiulo nei primi anni della sua attività: ”Il repertorio è quello del Giacobbe e Labano, siglato, della pinacoteca D’Errico di Matera, ma la concretezza naturalistica falconiana delle vacche, la figuretta del pastore e il taglio del paesaggio alberato, che rimandano alla Roma non solo di Tassi, ma anche dei bamboccianti fiamminghi, lo associano alle prime cose di Spadaro nei tardi anni Trenta, i tondi con la Buona ventura e l’Osteria, la Marina e la Fiera di Sorrento (Daprà – Sestieri n. 1,2,5,7)”.
La Daprà, specialista del pittore, pur esaminando il dipinto solo attraverso una foto, espresse parere dubitativo sull’attribuzione consigliando di rinviare un giudizio definitivo a dopo il restauro del quadro, bisognoso di una pulitura, che ridia la lucentezza e la vivacità dei colori di un tempo.Cogliamo l’occasione per ribadire la necessità di una correzione della data di morte dell’artista al 1672 e non il 1675, generalmente indicata su tutti i libri di testo e per chi volesse approfondire la questione rinviamo alle ragioni esposte nel nostro saggio sul Gargiulo (cfr. A.della Ragione, Il secolo d’oro della pittura napoletana, vol. II, pag.100).

Memento mori (fig. 14)
Il Memento mori è una tela ampiamente ridipinta nel volto del Bambino, per cui l’autore, sicuramente di cultura napoletana, attivo intorno alla prima metà del secolo XVII, rimane ignoto. Egli si rifà ai modi pittorici di Battistello Caracciolo ed ai suoi caratteristici putti da lui dipinti nello stesso modo lungo tutta la sua carriera, sin dai suoi primi lavori al Monte di Pietà nel 1601, dove affrescò sei angeli, fino ai tanti puttini presenti nelle sue opere tarde anche degli anni Trenta, come nella Natività dell’Oratorio dei Nobili e nell’Assunta del museo di San Martino.
La fattura dignitosa del panno che riveste il fanciullo e la stessa iconografia avevano in passato fatto avanzare da parte di qualche studioso il riferimento al Caracciolo, che è stato decisamente escluso da Stefano Causa.Il tema trattato, un Memento mori, fa parte del vasto capitolo delle Vanitas, presente in larga misura nella natura morta europea.Il teschio quale simbolo di “Mors absconditus”, cioè della putrescenza cui l’uomo non può scampare, anticipa la condizione futura della persona ritratta in primo piano sul quadro.
Tale teschio, espressione e lamento per la caducità di tutte le cose, nell’iconografia classica si accompagna spesso a simboli della gloria terrena come preziosi, libri oppure a scritte con frasi ammonitrici, come quelle nel quadro in esame, purtroppo non decifrabili.Il messaggio che sembra inviarci questo triste bambino dal volto pensieroso è dunque un invito alla riflessione sull’inutilità degli affetti terreni nel segno dell’eternità, quando ogni cosa perde significato, anche l’erudizione nella quale l’ambizione illuminista cercò di dare dignità all’esistenza umana, anch’essa però destinata, come i libri ponderosi con cui spesso è simboleggiata, a scomparire nel nulla.La circostanza che l’autore del dipinto debba restare anonimo accresce i significati reconditi del messaggio, aumenta la gravità del monito ed invita con sollecitudine alla meditazione sulla vanità dell’umana esistenza.
David e Golia (fig. 15)
Il David e Golia, già presentato alla mostra Arte in Calabria del 1976 e pubblicato sul relativo catalogo come ignoto del XVII secolo, deve purtroppo rimanere nel limbo dei dipinti anonimi a causa di un ampio restauro che rende difficile il riconoscimento della sua paternità.La tela, di suggestivo effetto teatrale, con l’eroe ebreo che sembra pavoneggiarsi allo specchio con la gigantesca testa del Golia,
abbracciata a guisa di maschera grottesca e con il braccio destro teso in maniera imperiosa, che strappa un ciuffo di capelli al nemico abbattuto, non è priva di dettagli di altissima qualità come il manto di pelle animale che avvolge il giovane guerriero, reso con grande accuratezza e con gradazione cromatica molto ricercata.
Lo scorcio di paesaggio sulla destra con i suoi tenui azzurrini ci permette di datare la tela oltre la metà del secolo. In passato era stata ventilata da qualche critico la possibilità di assegnare l’opera al Guarino; tale ipotesi non può essere presa in esame per le considerazioni già esposte e più probabilmente bisogna orientarsi a ritenere che l’ignoto artista abbia potuto prendere ispirazione da un originale non identificabile di scuola emiliana.Le morbide e ben modellate fattezze del David richiamano infatti la pennellata classicista e le doti disegnative di Guido Reni, anche se il Golia dal volto afflosciato denota marcati segni di derivazione naturalista.In ogni caso un dipinto interessante e di buona fattura, gradevole a vedersi, anche se costretto all’anonimato dell’autore.
Sant’Apollonia (fig. 16)

La Sant’Apollonia è il quadro più affascinante della collezione Pellegrini ed il primo parere sul suo autore fu espresso nel 1954 da Amadio, il quale riconobbe senza ombra di dubbio la mano di Massimo Stanzione:”La straordinaria dolcezza del volto della santa nel dolore del martirio, gli occhi arrossati dallo strazio e dalle lacrime versate fanno del quadro una potente opera pittorica, la quale non è assolutamente seconda alla Sant’Agata che è conservata nel museo Nazionale di Napoli, anzi si può dire sia la stessa modella adoperata dall’artista”.
Egli singolarmente colse una rassomiglianza con il quadro che è oggi conservato a San Martino ed è riferito con certezza al catalogo di Francesco Guarino.In seguito in occasione della mostra Arte in calabria, ritrovamenti, restauri, recuperi del 1976, la tela fu inserita nel catalogo dalla curatrice Di Dario Guida (Foto 288, pag. 194) come autografo di Stanzione.In seguito nel 1983 il professor Pillon, noto critico e titolare della rubrica la bottega dell’arte del settimanale Il Borghese, ne pubblica sulla rivista la foto confermando la paternità stanzionesca e la qualità pregevole del dipinto.
“La Sant’Apollonia è un pezzo degno di un museo ed è interessante per un motivo storico più che artistico, infatti la tradizione racconta che tra il 249 ed il 250 dopo Cristo (così assicura anche Eusebio di Cesarea nella sua Historia Ecclesiae) scoppiò in Alessandria d’Egitto una sommossa popolare contro i Cristiani. Tra gli altri, fu presa una vecchia e brutta zitella di nome Apollonia: le furono divelti i denti e venne preparato un gran fuoco per bruciarla viva. Per salvarsi avrebbe dovuto pronunciare bestemmie contro il suo Dio, ma con un’astuzia riuscì a liberarsi e si slanciò da sé nelle fiamme. Così morì e la Chiesa la venera come martire perché ha ritenuto che in quelle circostanze il suicidio non fosse una colpa; è venerata il 9 febbraio ed invocata contro il mal di denti”.
Ma poteva mai un artista, poeticamente raffinato come Massimo Stanzione, accettare l’idea che Apollonia fosse vecchia e brutta? Ed ecco l’artista infonderle gioventù e bellezza come è nella tela” (Il Borghese, 3 aprile 1983, pag. 879 – 880).
Al coro di voci di critici che da decenni davano per scontata la paternità stanzionesca, nel 1992 si è creata una dissonanza con il disconoscimento autorevole da parte di Thomas C. Willette, lo studioso autore con Sebastian Schutze della monumentale monografia su Massimo Stanzione edita dall’Electa, il quale pubblica (n.372 a pag. 404) la foto della Santa Apollonia, ma la giudica non autografa (scheda C6 e pag. 248) proponendo per la stessa, anche se dubitativamente, una paternità di Giuseppe Marullo.
Willette evidenzia una singolare rassomiglianza e ritiene dello stesso autore anche una Santa Caterina d’Alessandria (foto 398 a pag. 416 – scheda 416 a pag. 253) di collezione privata napoletana.Abbiamo avuto modo di esaminare il quadro in questione di qualità inferiore e di dimensioni simili alla Santa Apollonia, per il quadro è stata utilizzata senza dubbio la stessa modella, che compare a nostro parere anche nella Madonna col Bambino (foto 373 a pag. 404 – scheda C3 a pag. 248), conservata a Dunkerque nel Museè des Beaux Arts: un’altra tela della quale il Willette esclude la paternità stanzionesca, pur essendo stata in passato riferita con certezza al divino cavaliere da studiosi del calibro del direttore del Louvre Pierre Rosenberg e del noto critico Jacques Foucart.Il Willette senza visionare l’opera, semplicemente utilizzando una foto, attribuisce la Santa Apollonia al Marullo, un allievo di Stanzione all’epoca poco conosciuto nonostante la presenza di numerose sue tele firmate nelle chiese napoletane.
Un attento esame può evidenziare un accenno ad un cono d’ombra sulla porzione sinistra del volto della santa, una sorta di firma nascosta dell’artista, riscontrabile in molte sue tele, ma la modella non è quella che Marullo continuò ad adoperare a lungo nonostante lo scorrere del tempo.Per chi volesse approfondire l’argomento consiglio di consultare (anche sul web) la mia monografia sul pittore: Giuseppe Marullo, opera completa.Ammirare da vicino la Santa Apollonia fornisce una profonda emozione, difficile da riferire e permette una identificazione più certa del suo autore da tante sfumature, che non possono comprendersi con il solo esame di una foto.
Questa eterea bellezza mediterranea dal volto sensuale ed accattivante mostra l’oggetto del suo martirio con indifferenza e con lo sguardo trasognato incurante degli affetti terreni e con gli occhi che, pur fissando lo spettatore, sembrano proiettati fuori dal tempo e dallo spazio. Dal dipinto promana una dolcezza languida, serena, rassicurante che ci fa comprendere con quanta calma la Santa abbia affrontato il martirio, sicura della bontà delle sue decisioni, illuminata dalla fede che tutto trascende, placando e spegnendo tutti i sentimenti e le sensazioni negative quali il dolore, la sofferenza, l’umiliazione, lo sdegno ed esaltando la calma serafica, la serenità dell’animo, la certezza di una scelta adamantina.In occasione della stesura del catalogo della collezione tutti gli studiosi del pool da me costituito hanno espresso pienamente la convinzione di trovarsi davanti ad un autografo stanzionesco di altissima qualità.
Spinosa ha riferito inoltre che in passato alcuni studiosi, discutendone con lui, avevano avanzato l’ipotesi di trovarsi davanti ad un’opera di Francesco Guarino, sempre di ottima fattura, mentre Leone de Castris, oltre a confermare la paternità, colloca la tela nel periodo di influenza caravaggesca dell’artista, prima del 1630, per i toni più scuri rispetto all’altra santa presente nella collezione, di epoca successiva.“Dipinto precoce ed importante di Stanzione verso la fine degli anni Venti.
Qualità e forte senso naturalistico rendono inaccettabile la proposta di Willette per Marullo. Nonostante i danni e le alterazioni, è volontaria la quasi monocromia dell’insieme ancora molto caravaggesca, coi bruni e i rosa spenti delle vesti illuminati solo dal bianco delle carni e dal rosso delle labbra e del sangue sulla radice del dente crudamente estratto.Raffronti con l’Adorazione dei pastori di San Martino, Sala del Capitolo (circa 1627) e del museo di Bilbao e con le Storie del Battista del Prado di Madrid, comprovano la datazione” (Leone De Castris).
L’altro autografo stanzionesco della collezione è una Sant’Orsola dal volto dolcissimo e dagli occhi rivolti al cielo che affronta serena il martirio senza turbamenti, senza incertezze, senza esitazioni.

Sant’Orsola (fig. 17)
Sant’Orsola è una figura leggendaria, la cui iconografia è recente, risalendo al XIV secolo. Unica figlia di un re di Bretagna, di ritorno da un pellegrinaggio a Roma con un seguito di undicimila fanciulle, fu uccisa a Colonia dagli Unni con le compagne. Altre volte è rappresentata in abiti regali accompagnata da uno stuolo di vergini.Celebre il dipinto del Caravaggio che raffigura il suo martirio, di proprietà a Napoli dell’ex Banca Commerciale italiana, la cui autografia e lo stesso soggetto sono stati argomento di discussione per gli studiosi.
Nella tela caravaggesca la santa viene uccisa da una freccia in pieno petto, mentre nel nostro quadro la saetta fatale la colpisce alla gola, facendo scorrere quelle gocce di sangue così naturalista che incontriamo per la prima volta nella pittura napoletana nel Martirio di Sant’Orsola di Giovan Bernardo Azzolino in una privata collezione napoletana, in cui da parte dei manieristi tardo cinquecenteschi protrudenti nel nuovo secolo si ha una reazione particolarissima, ma intensa e vivace, alle provocazioni del dipinto del Caravaggio, già in collezione Doria.
Nel dipinto in esame la mano destra dalle lunghe dita affusolate posta sul petto è un segno di conferma della scelta adottata in piena consapevolezza delle gioie ultraterrene che l’attendono dopo la morte, nella luce di Dio, in cui lei crede così fermamente da perdersi nella sua grandezza con una calma imperturbabile, che è di esempio e di insegnamento per tutti noi.La tela aveva avuto negli anni Cinquanta un’insostenibile attribuzione alla pittrice Elisabetta Sirani, amica carissima di Guido Reni, dal quale apprese la tecnica e prese ispirazione per i propri soggetti.
Sant’Orsola viceversa è stata unanimemente considerata da tutti gli esperti del pool un autografo stanzionesco, nella piena maturità dei suoi mezzi espressivi, verso la fine degli anni Quaranta, a differenza dell’altra santa della collezione, la Santa Apollonia, appartenente al periodo caravaggesco del divino Massimo. Unica voce fuori dal coro quella di Pavone che riteneva di riconoscere un’opera giovanile di Andrea Vaccaro in un momento, ancora poco noto alla critica, di massima tangenza con l’attività di Stanzione.
Noi riteniamo che i caratteri stilistici più propriamente vaccariani che si scorgono nella tela, come la chiusura della bocca, siano frutto di restauri del passato, mentre inequivocabilmente la mano destra dalle dita filiformi è patognomonica della firma di Stanzione.Leone De Castris tenne a dichiarare”Stanzione certo della seconda metà degli anni Quaranta da confrontare con l’Adorazione dei pastori di Capodimonte, già nella chiesa del Divino Amore e con l’Incoronazione della Vergine a San Giovanni Battista delle monache, detta un tempo datata 1649. Classicismo ispirato alla Guido Reni, dita affusolate e tornite dall’ombra, gamma cromatica standardizzata già nelle mezze figure di Madonne (blu oltremarino, rosso, bianco e beige della sciarpa, dipinta con pennellate liquide come un velo, tipiche del periodo maturo; molti confronti, dalla Madonna e santi della cappella di S. Ugo e San Martino, alla Madonna del museo di Trapani).
Forse qualche restauro di rinforzo nel volto.Questa splendida ed inedita Sant’Orsola con la Sant’Apollonia, finalmente restituita al corpus stanzionesco, accrescono il catalogo del grande pittore napoletano di due nuovi eccezionali capolavori.
Mosè e l’acqua dalla roccia (fig. 18)
Il Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia fu il dipinto che mi creò più problemi all’epoca della stesura del catalogo della collezione Pellegrini, quando dovetti riordinare e dare una paternità a tante opere che, per quanto pregevoli, erano in gran parte inedite e di autore da identificare. Ero assistito da un pool di esperti eccezionale costituito dai professori Spinosa, Leone De Castris, Pacelli e Pavone, i quali per quanto riguarda il Mosè avevano ognuno un’idea diversa.Spinosa pensava a Gaetano Recco, del quale poco conosciamo con sicurezza, anche se alcune sue figure di vecchi hanno una vaga somiglianza con qualcuno dei personaggi rappresentati, o a Giovanni Ricca, anche lui tutto da esplorare per la critica, del quale sono noti alcuni suoi quadri di vecchi filosofi, firmati.
Pavone e Pacelli proclamavano con fermezza la paternità di Pacecco De Rosa, suggestionati dai colori, dalle fisionomie dei personaggi e dall’atmosfera complessiva della tela, ipotesi che Spinosa escludeva recisamente. A tal proposito, riesaminando il quadro a distanza di dieci anni e facendo tesoro dei miei approfondimenti sull’autore, sul quale ho pubblicato una monografia (Pacecco De Rosa, opera completa – Napoli 2005, consultabile sul web), vorrei sottolineare che la figura del bambino al centro della composizione compare i molti dipinti dell’artista, autore spesso di opere a quattro mani con il patrigno Filippo Vitale, del quale si respira la pennellata robusta e naturalista.Infine Leone De Castris mi mostrò per raffronto una tale quantità di foto, in gran parte inedite, di tele del D’Amato, pittore poco conosciuto dalla critica e da Lui lungamente studiato, che mi convinsi ad accettare questa sofferta attribuzione come la più probabile.
“Si tratta di un’opera tarda di questo mal noto pittore, documentato fra il 1594 ed il 1643, riconoscibile dagli elementi della sua formazione tardo manierista, a bottega dal padre (?) Giovann’Angelo ed a contatto dapprima con Imparato e poi specie con Santafede, dal quale evidenti i prelievi nella figura della donna con la tipica veste rosata impastata e in quella del bimbo, costantemente ripetuta sin dai suoi esordi.A partire dalla fine degli anni Dieci e sino alla fine della sua carriera Giovanni Antonio – che collaborerà nel 1618 al soffitto dell’Annunziata di Giugliano – mostra di saper innestare e fondere questi elementi tardo manieristi ad interessi per la pittura naturalista, per Ribera, Vitale, Pacecco, Stanzione.
Nonostante che i caratteri alla Ribera ed alla Vitale palesi nelle due figure di vecchi in questo dipinto – unica testimonianza per ora nota del pittore nel campo della pittura da quadreria- siano già visibili in opere degli anni Venti (Deposizione dei Girolamini, Sacra Conversazione della chiesa del Divino Amore), l’apertura pittoricistica del cielo ed il parallelismo con le cose giovanili di Pacecco lo spingono verso gli avanzati anni Trenta e l’associano alla Natività della Vergine di Santa Maria Materdomini, alla Madonna e santi di Ruvo e alla più tarda Immacolata della chiesa dei SS. Bernardo e Margherita a Fonseca”.
Susanna ed i vecchioni (fig. 19)
Anche la Susanna ed i vecchioni creò non pochi problemi attributivi già alla mostra del 1976, dove passò come di autore ignoto.Il quadro ispirato ad un’iconografia cara a quasi tutti i pittori del Seicento napoletano, che si sono cimentati su questo soggetto, è trattato con una cura diligente nell’espressione dei volti dei personaggi:dai due vecchioni, in cui è lampante la libido repressa e la sfrenata bramosia di peccato, alla casta Susanna, da un lato adombrata per le insistenti attenzioni senili, ma che tuttavia non sa nascondere un’inconscia accondiscendenza a delle profferte così sfacciate. Il tutto immerso in un’atmosfera resa surreale dalla presenza sullo sfondo di un’architettura fantastica alla De Nomè, arricchita da brocche preziose e vesti eleganti di damasco, curate meticolosamente nell’aspetto cromatico.
Il pennello del pittore ha indugiato voluttuoso sull’incarnato della donna nuda dalle forme perfette e dalla prorompente bellezza mediterranea, regalandoci un brivido d malizia indimenticabile.I seni della Susanna sono di materia carnosa, opulenta, traslucida, sono eterni, fuori dal tempo e dallo spazio, non si deformano, né avvizziscono, archetipo femminile della femminile bellezza.
Simboleggiano il porto sicuro cui ognuno anela di fermarsi a riposare per sempre, preziosi come una boccetta di rare essenze, maestosi, ma nello stesso tempo fragili, come se costituiti da sottile cristallo, che a rompersi si disperdono come polvere di talco.La tela è stata assegnata da Spinosa a Filippo Vitale, mentre Pacelli, associandosi al suo parere, ha ipotizzato la collaborazione del figliastro Pacecco De Rosa.
Molto interessanti furono anche le riflessioni di Pavone:”Si tratta di un’opera di chiara derivazione dagli esiti di Artemisia Gentileschi, del tipo della Susanna di Pommersfelden, anche per l’accentuata carica grottesca dei vecchi, dall’espressione morbosa. Così la ripetuta esposizione del nudo rimanda ai corpi femminili illustrati da Artemisia, i cui risultati, ben noti a Napoli, appaiono ripresi dall’autore del dipinto in questione, che appare pronto a caricare i toni e le espressioni, secondo un marchio connotativo, che parte indubbiamente da Vitale e prosegue fino a Marullo.
L’edificio sulla destra per le irreali lumeggiature in luce diurna appare come una pura citazione, in riferimento alla cultura figurativa di Francois De Nomè. L’opera trova collocazione alla metà del Seicento”.Da considerare attentamente l’ipotesi di Leone De Castris che condividiamo pienamente, il quale oltre a riscontrare tangenze con Filippo Vitale tardo, il giovane Pacecco, Onofrio Palumbo e Niccolò De Simone, ritiene che l’autore possa essere una personalità attiva a Napoli negli anni ’30 – ’40 o forse appena oltre, che potrebbe identificarsi con Gerolamo De Magistro. (In seguito identificato attraverso documenti da De Vito per Gerolamo Dello Mastro)
Lo studioso ci confidò di aver scoperto una sua terza opera firmata per esteso e di averla collegata a numerose altre che da tempo raccoglie e che denotano la stessa mano. Tali dipinti fanno capo ad uno splendido Salomone che adora gli idoli, già in asta a New York nel 1981 e posseggono tutti uno sfondo architettonico alla De Nomè o alla Codazzi, una cura meticolosa nella definizione dei panneggi delle vesti, spesso di damasco, la presenza di oggetti di argenteria o brocche preziose, mentre i visi delle donne, dolcissimi, hanno degli ovali caratteristici, lo stesso tipo di costruzione del volto e la stessa boccuccia ben definita nelle labbra che caratterizza la nostra casta Susanna.


P.S. Per chi volesse esaminare tutti i dipinti della collezione Pellegrini rinvio al mio saggio ”La collezione Pellegrini” (Cosenza,1998)

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