sabato 10 marzo 2012

I DIPINTI NAPOLETANI DELLA GALLERIA CORSINI


Capolavori, inediti ed attribuzioni respinte

La Galleria Corsini, da poco restituita all’antico splendore, possiede oltre a dipinti di grandi autori di statura mondiale da Caravaggio a Rubens, da Murillo al Beato Angelico, una nutrita rappresentanza di pittori del Seicento napoletano con in testa tutti i capo scuola: Ribera, Giordano, Stanzione, Preti, Salvator Rosa, Solimena, oltre a numerosi minori di grande interesse per gli studiosi, per cui per gli appassionati del secolo d’oro si impone una visita al museo.
Del Ribera possiamo osservare le varie fasi del suo sviluppo artistico, partendo, molto probabilmente, dalla sua fase romana, infatti la splendida Negazione di Pietro (fig. 1) , ancora attribuita al Maestro del Giudizio di Salomone, potrebbe, secondo il Papi e parzialmente d’accordo Spinosa, essere tra le prime prove del valenzano appena trasferitosi a Roma.

Il nome di convenzione fu creato da Longhi per riunire una serie di quadri da lui ritenuti della stessa mano intorno al Giudizio di Salomone della Galleria Borghese; si tratta di dipinti databili entro il primo quarto del secolo in stretto rapporto con i modi pittorici di Valentin de Boulogne.
Il Papi ha proposto di trasferire tutta la produzione dell’anonimo maestro nel catalogo del Ribera entro il 1616, anno del suo definitivo trasferimento a Napoli, dove rimarrà per quasi quarant’anni; viceversa Spinosa, grande esperto del pittore, ritiene che solo alcune tele possano dubitativamente essergli assegnate, e tra queste la Negazione di Pietro, mentre le altre tradiscono la mano di più autori.
Il dipinto, tra i più ammirati della Galleria, è immerso in un’atmosfera profana ed i protagonisti sono immersi nel buio di un’osteria, con la luce di matrice caravaggesca che taglia la scena facendo risaltare gli sguardi ed i gesti delle figure, mentre al centro le tre teste e le braccia del guerriero trasmettono una sorta di energia visiva, la quale si propaga verso i lati della composizione.
Il San Gerolamo in meditazione (fig. 2) , un tema caro all’artista, è ritenuto dalla critica copia di un originale perduto, presentando resa pittorica, splendore cromatico ed effetto realistico più corrivo.

Questa nuova impaginazione è la risultante di più redazioni ed in particolare prende ispirazione dalla tela della collezione Thyssen, firmata e datata 1634, da quella conservata nel Fogg art museum di Cambridge e da quella di collezione romana che fu esposta nel 1992 a Napoli nella mostra monografica. Si tratta di un’incisiva meditazione intorno alla vacuità delle cose terrene, nello spirito dell’Ecclesiaste. Da notare il bellissimo brano di natura morta dei libri (Sacre Scritture che il santo traduceva in latino) di straordinaria consistenza materica e sodezza volumetrica, in cui spiccano l’abbacinante bagliore della pagina aperta e l’eterea penna bianca poggiata sul tavolo in primo piano. La luce esplora con mirabile virtuosismo naturalistico il corpo smunto e provato del santo, mettendo in rilievo le ossa, le vene, le rughe ed ogni piega della pelle, esaltando la macabra levigatezza del teschio, col quale Gerolamo intreccia un dialogo muto, tanto intenso quanto virilmente e cristianamente libero da ogni angoscia.
Riteniamo che l’originale perduto possa ragionevolmente identificarsi con il dipinto passato in asta presso Finarte Roma nel mese di febbraio 2008.
Capolavoro della fase pittoricistica del Ribera, firmato e datato 1637, Venere e Adone (fig. 3) rappresenta il momento più drammatico della loro passione, quando la dea cerca di soccorrere il suo amato morente, con un’intensità di passione da travalicare gli stessi eventi, dando all’episodio contingente il cosmico carattere dell’eternità ed immaterialità dell’amore.

L’episodio è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, il quale, a sua volta, si rifà ad altre mitologie provenienti dall’Oriente. Adone è un giovane di leggendaria bellezza, frutto di un amore incestuoso, amato sia da Venere che da Persefone.
Nell’iconografia più usuale è rappresentato nel pieno delle sue attenzioni… dedicate alla dea Venere, ma il Ribera sceglie viceversa un momento più coinvolgente, quando il giovane, ferito mortalmente da un cinghiale, giace a terra esanime e la dea, come evocata d’incanto dal disperato dolore del giovane, accorre per soccorrerlo.
I pochi colori adoperati, resi sfolgoranti da un sapiente uso della luce, caricano di pathos la scena e trasmettono all’osservatore il dramma che si consuma nel volgere di pochi attimi.
Il grande valenzano dimostra di padroneggiare le corde di una tastiera cromatica basata su pochi colori dominanti: rosso, blu ed alcune tonalità di giallo e sa trasmetterci tutta l’intensità del pathos mediante uno schema compositivo semplice, ma in grado di tenere alta la tensione psicologica.
La maniera dorata del Giordano ha uno degli esempi più alti nel Gesù tra i dottori (fig. 4) , tra i dipinti più citati dell’artista nei manuali di storia dell’arte, dove la forma si dissolve in veli e pulviscoli di pura luce. Il genio del pittore si rivela nella sua capacità di assimilare e purificare in un fiume di colore, in una massa aurea, in un liquido fluire di pennellate ogni ricordo, ogni suggestione, quando nella composizione si esprime in grandi onde ricorrenti, con una pennellata leggera e guizzante che si muove velocemente senza posa, da cui derivò all’artista il nomignolo di “Luca fa presto”. Il denso cromatismo bituminoso attenua i contrasti di luce e crea un’atmosfera fumosa ed iridescente.

La critica ha sempre rilevato nella tela gli aspetti neoveneti, soprattutto veronesiani e più acutamente Ortolani e Bottari hanno colto la mediazione dagli esempi di Mattia Preti, nella luce avvolgente che impregna l’intera composizione.
L’opera va collocata intorno al 1660 ed il tema, con significative varianti, è stato più volte replicato con successo.
Di qualità più bassa e con devastanti restauri, da metterne in dubbio l’autografia, è l’altra tela del Giordano: l’Ingresso di Cristo in Gerusalemme (fig. 5) , ricordata dal De Dominici e databile vicino ai dipinti conservati nel museo dell’università di Wurzburg: l’Innalzamento delle croci, firmato e datato 1690 e non 1686, come segnalato nella monografia del 1966 di Ferrari e Scavizzi e la Moltiplicazione dei pani, firmata.

Probabilmente si tratta di una serie dispersa (anche le dimensioni sono molto simili) che con le loro folle sciamanti, rese secondo un modulo fluente, segnano una tappa significativa, perché il pittore realizzò un compromesso tra dipinti di timbro neocinquecentesco ed una concezione atmosferica nuova.
A questo gruppo va aggiunta la Crocefissione della Galleria Caylus di Madrid, già nella raccolta della duchessa di Medinaceli, pubblicata da Spinosa, nella quale il drammatico evento si svolge tra tinte fosche e baluginanti, rese con colori vibranti, mentre una folla assiste appena turbata all’evento drammatico che si sta svolgendo.
La Madonna della rosa (fig. 6) di Massimo Stanzione, proveniente dalla collezione del cardinale Neri Corsini è firmata EQ.MAX. e versa purtroppo in precario stato di conservazione con ampie ridipinture. Il quadro appartiene al periodo classicista dell’artista ed è stato datato dall’Ortolani a poco prima del 1640 e dal Di Carpegna a poco dopo. Più plausibile l’opinione del Leone de Castris, sulla quale concorda anche il Willette, che lo colloca ai primi anni Cinquanta, stilisticamente vicino alla Madonna col Bambino della chiesa di Donnaregina Nuova, che presenta una tipologia di Vergine simile, mentre la positura del Bambino riprende quella dell’Adorazione dei pastori del museo di Capodimonte e di Filadelfia.

Di notevole qualità sono i dipinti di Mattia Preti, che documentano vari momenti della sua attività.
Il Tributo della moneta (fig. 7) viene generalmente collocato dagli studiosi, a partire da Longhi, al periodo giovanile entro il quarto decennio, ma in occasione della mostra napoletana sull’artista nel 1999, Alloisi, nel curarne la scheda del catalogo, ha proposto una datazione intorno al 1645, tenendo conto dei palpabili segni guercineschi del dipinto, ben più marcati di quelli manfrediani, di derivazione caravaggesca.

La tela è purtroppo molto rovinata con i pigmenti impoveriti da restauri troppo energici, ma lo stesso è possibile apprezzare la maestria del Preti nel padroneggiare la distribuzione della luce, che irrompe prepotente da sinistra e si insinua nel groviglio di mani e di teste, per poi illuminare il busto ed il volto del Cristo.
Certamente successiva è l’atro quadro del cavaliere calabrese, un Martirio di San Bartolomeo (fig. 8) , ascrivibile al soggiorno napoletano, dopo il 1653, caratterizzato da una visione ravvicinata incentrata sul livido incarnato del santo, dal colorito cianotico, quasi anossico, mentre gli aguzzini occupano il margine della composizione.

Un dipinto certamente influenzato dagli esempi del Ribera, rivisitati però con una libertà pittorica ed uno stile personale.
Di Salvator Rosa sono conservati alcuni dipinti importanti, oltre a qualche piccolo paesaggio di autografia incerta.
Il Prometeo incatenato (fig. 9) , di grande impatto visivo per la violenza della scena che richiama il sanguinolento pennello del Ribera, non è un’opera degli anni Trenta, come indicato nel catalogo della Galleria, bensì è databile, in base a considerazioni stilistiche a dopo il 1650. Citato dal Baldinucci”Prometeo incatenato allo scoglio e un avvoltoio gli lacera il petto” è da taluni studiosi, inclusa la leggendaria lady Morgan, confuso con il Tizio, opera giovanile perduta, nota unicamente attraverso una stampa.

Il dipinto raffigura il supplizio al quale fu condannato Prometeo per aver rubato il fuoco agli dei, un tema neo classico e romantico che ebbe grande successo tra gli ammiratori del pittore fino a tutto l’Ottocento.
Al tardo periodo romano appartengono il Paese con pastori e buoi e il Paesaggio roccioso con due figure, caratterizzati da una fattura compendiari quasi impressionistica, mentre giovanile, secondo il Salerno, è la Marina con faro (fig. 11) , che precede le grandi Marine del periodo fiorentino ed una piccola Marina con ruderi, siglata, realizzata con pennellate rapide, caratteristiche del periodo che l’artista, come ci riferisce il Pascoli, in cui vendeva i suoi quadri a modesti bottegai.

Interessante è la Battaglia (fig. 10) , siglata, la quale ripropone, in dimensioni più ridotte, la tela conservata ad Althorp House, nella celebre collezione di Lord Spencer, collocabile cronologicamente al periodo toscano.

Particolarmente nutrito è il genere della natura morta a partire da due quadri del Brueghel di fiori e frutta, appartenenti però al periodo romano, come si evince dall’esame del cocomero spaccato a metà, che all’ombra del Vesuvio diverrà, come ammonisce il De Dominici, fracassoso.
Particolarmente significativa è una rara tela eseguita da Marco de Caro, una Natura morta con pesci e conchiglie (fig. 12) eseguita nella seconda metà del secolo da un pittore, attivo a Napoli, caratterizzato da una preziosa sintesi tra precisione ottica e vivace cromatismo. L’artista risulta iscritto nel 1680 alla corporazione dei pittori napoletani e spetta al Causa la ricostruzione, ancora parziale della sua personalità e la corretta attribuzione della tela Corsini, precedentemente creduta di Giuseppe Recco dal Di Carpegna e presente alla mostra napoletana del 1964 come anonimo romano o napoletano.

La collezione possiede poi alcune tele famose, esposte però nella Galleria d’arte antica di palazzo Barberini.
Si tratta della celebre Natura morta con tuberosa (fig. 13) a lungo assegnata convincentemente a Luca Forte, alla luce dei tralci di vite che sembrano attorcigliarsi in maniera da formare le iniziali del pittore e che in anni successivi è stata espunta dal De Vito e collocata in ambito caravaggesco romano intorno al terzo decennio; opinione accolta anche dai curatori del catalogo del museo uscito proprio in questi giorni.

La tela è il simbolo dell’incertezza attributiva che regna nel campo della natura morta, non solo napoletana; in ogni caso il carattere caravaggesco che pervade la composizione è lampante con la luce che si staglia definendo minuziosamente le forme sul fondo scuro.
Anche una Natura morta con frutta e cetrioli, siglata GRU, tipicamente barocca, è alla base della ricostruzione operata dal Di Carpegna di questo maestro dal nome di convenzione, accademizzante e pedissequo imitatore dei modi pittorici di Giuseppe Ruoppolo.
Del Masturzo è una Battaglia (fig. 14) , citata negli inventari, ma purtroppo non esposta, che sarebbe molto utile esaminare per meglio definire lo stile di questo specialista, sotto il cui nome circolano numerosi quadri sul mercato antiquariale.

Il San Pietro liberato dal carcere (fig. 15) è, per la pennellata delicata e l’aura di fremente poesia, tra i dipinti più cavalliniani dello Schonfeld, un pittore tedesco a lungo attivo in Italia a Roma ed a Napoli, dove risiede fino alla rivolta di Masaniello del 1647. Egli esegue numerose scene di martirio, una tematica di grande successo nel IV decennio del secolo, che trovò i maggiori interpreti nella bottega falconiana, dal Gargiulo al Coppola ed ebbe influssi reciproci con gli specialisti del settore.

Nel dipinto possiamo apprezzare le sue figurine allungate, di derivazione callottiana, molto simili a quelle dello Spadaro, eseguite con una grafia elegante impregnata dalla luce. La tela fa parte certamente del periodo napoletano, oltre che per i modi pittorici prettamente partenopei prima descritti, anche per la figura del nudo di spalle in primo piano, un prelievo letterale dal noto quadro di analogo soggetto realizzato nel 1615 dal Battistello per la chiesa del Pio Monte della Misericordia.
Certamente da espungere dal catalogo del Solimena è l’orribile San Pietro piangente (fig. 16) , un modesto prodotto di bottega, eseguito nei primi decenni del Settecento.

Il Mangiatore di maccheroni (fig. 17) era assegnato nel fondo Corsini a Salvator Rosa, venne poi dato da Ortolani al Gargiulo nel corso della grande mostra su tre secoli di pittura napoletana del 1938, per via di una generica matrice callottiana, quando la personalità dell’artista non era stata ancora focalizzata e nel Dizionario enciclopedico Treccani, il pittore viene illustrato proprio da questo dipinto. In seguito in occasione della mostra del 1958 Norfo Di Carpegna ne rivelava l’eccessiva accentuazione caricaturale incompatibile con lo spirito di Micco ed il Sestieri, nel 1994, nella sua monografia segnala una Rissa di vagabondi conservata nel museo Granet di Aix en Provence eseguita dalla stessa mano, per cui, allo stato degli studi, come autore della tela, più che di un ignoto bambocciante attivo a Roma nel terzo decennio, dobbiamo parlare di un seguace di Gargiulo da identificare.

Vi sono infine altri quadri, che purtroppo non posso documentare fotograficamente, per inopportune difficoltà burocratiche, che sono sicuramente napoletani, uno attribuibile all’ambito di Andrea Vaccaro, poco visibile perché posizionato molto in alto ed una figura femminile, che irradia un inconfondibile afrore partenopeo, catalogata come di autore ignoto e con una poco plausibile proposta orale di Strinati al Gessi e che viceversa ritengo vicina al Guarino o a qualche poco noto minore stanzionesco.

P.S.
PALAZZO CORSINI
Via della Lungara, 10 - 00165 ROMA 
Tel.: 0039 06 68802323 
Fax: 0039 06 68133192 
E-mail: sspm-rm.galleriacorsini@beniculturali.it
ORARI
Martedì-Domenica 8.30 – 19.30 
La biglietteria chiude alle 19.00 
Chiuso lunedì

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