mercoledì 7 marzo 2012

LA COLLEZIONE PIER LUIGI AMATA


Una splendida raccolta ricca di capolavori ed inediti

La collezione Amata è il risultato della passione e della ricerca di un novello collezionista, costruita negli ultimi venti anni senza un filo conduttore preciso, che imbrigli le scelte nel’ambito di un genere o di una scuola. Essa si avvia velocemente a comprendere più di cento dipinti, rappresentativi di un gusto raffinato e di una irrefrenabile curiosità del proprietario, impegnato ad inseguire sul mercato sempre nuove prede da attaccare orgoglioso alle pareti della sua bella casa romana.
Nel 2005 vi è stata una consacrazione ufficiale della raccolta con un’esposizione a Palazzo Venezia e con la stampa di un prezioso catalogo curato da un comitato scientifico autorevole, composto da numerosi studiosi specialisti degli autori rappresentati, per i quali sono state redatte esaustive schede.
Nel frattempo il numero dei quadri si è raddoppiato e cresce ad un ritmo sostenuto, permettendo alla collezione di divenire sempre più completa ed ambiziosa. I settori più coltivati sono la natura morta, la ritrattistica, il paesaggio, la pittura sacra, mentre tra le scuole italiane sono privilegiate Roma, Bologna e la Toscana, oltre a vari artisti stranieri, alcuni di grande rilievo.
Un’attenzione è dedicata ai minori, spesso assenti dai musei, unicamente per questioni logistiche, ma che lo stesso eseguono lavori di qualità e costituiscono un’occasione per gli studiosi di esercitarsi nel difficile terreno delle attribuzioni.
Pier Luigi Amata è un collezionista illuminato, che non tiene nascosti i suoi quadri, bensì offre ad appassionati ed esperti di gioire con lui del frutto della sua capacità di accrescere e conservare un patrimonio d’arte antica in un periodo nel quale gran parte dell’attenzione è riversata sul contemporaneo.
Egli ci ha confidato che la bussola che lo ha guidato nei suoi acquisti è stata sempre la ricerca dell’autore interessante, anche se meno conosciuto, più che inseguire l’opera dubbia del grande maestro. E ci fa i nomi di Sante Peranda, Grimaldi, Torri, Caccia, Bonzi, Resani, il Mantovano, il Genovesino ed il Nunez.
L’opera alla quale è più legato è la Venere nuda (fig. 1) dello Spadarino, una tela allegorica carica di simboli e di velata malinconia.

E partiremo proprio dalla descrizione di questo spettacolare dipinto la nostra breve carrellata tra le mura di casa Amata, confessando che, se avessi conosciuto in tempo questa voluttuosa fanciulla, l’avrei inclusa nel mio libro dedicato al Nudo femminile sdraiato dall’antichità ai nostri giorni (vedi l’articolo).
La tela è uno spontaneo omaggio ai celebri esempi di Giorgione e di Tiziano alla dea dell’amore, anche se la giovane donna dallo sguardo invitante sembra più rassomigliare ad un’amante orientale nel suo boudoir che ad una divinità idealizzata.
Del dipinto esistono altre versioni autografe, che si differenziano principalmente nello sguardo della fanciulla, distratto nella replica della Trafalgar Gallery, mentre in quello conservato nella National Gallery di York fissa sfacciatamente l’osservatore. In tutte Venere spinge indietro la pesante tenda come se volesse condurre l’attenzione sul crepuscolo e sull’avvento dei suoi passatempi amorosi, gesto eseguito con un tale languore che, come ha sottolineato Spike, sembra prendere i giro la mascolinità dello stesso gesto raffigurato da Annibale Carracci nel famoso dipinto di Danae, allora presente a Roma ed andato distrutto durante la seconda guerra mondiale.
Tra le nature morte spicca un Vaso di fiori di Francesco Mantovano (fig. 2), una personalità interessante tra i fioranti operanti nell’Italia settentrionale intorno alla metà del XVII secolo, la cui figura è stata da poco scoperta dalla critica. Nella tela possiamo apprezzare un vigoroso uso del colore, dal rosso acceso al blu notte, dal rosa delicato al giallo ocra, mentre si respira un vivido naturalismo derivante dalla cultura nordica circolante nei primi decenni del Seicento soprattutto nel nord Italia. Il dipinto è stato attribuito al Mantovano da Alberto Cottimo, uno specialista dell’artista, il quale ha lodato la qualità della luce che, provenendo da sinistra, saggia la serica levità e la delicata freschezza dei petali, nonché i lucidi riflessi del vaso.

Di Pietro Paolo Bonzi detto il Gobbo dei Carracci vi è un’interessante Natura morta con porcellino d’India (fig. 3), di autografia a mio parere border line, anche se la sistemazione della frutta e il suo raggruppamento all’interno della composizione mostrano delle chiare affinità con le opere certe dell’artista, come pure nella tela ricorre il repertorio consueto del Bonzi, dal cassone di legno sul quale sono elegantemente ed artificiosamente sistemati un melone, dell’uva e delle mele, al raggio di luce densa, di sapore caravaggesco, proveniente dall’alto che illumina la frutta e convoglia l’attenzione su questo settore del dipinto.

Nella composizione compare un simpatico porcellino, che annusa interessato della frutta, una singolarità nel catalogo del pittore dove gli animali appaiono raramente e solo sotto forma di insetti.
Tra i ritratti, troppi per i miei gusti, ma piacciono molto al collezionista, spiccano parecchi esemplari di qualità come quello di Fioravante Ravagnin (fig. 4), un notabile trevigiano, eseguito da Leandro Da Ponte detto il Bassano, dopo una profonda introspezione psicologica del personaggio, raffigurato con lo sguardo arcigno e degli occhi che sembrano seguirci, mentre la figura seduta si innerva di moto, facendo punto di forza con le mani, che sembrano far leva sui braccioli.

Non minore impressione desta l’ecclesiastico dal naso dantesco (fig. 5) immortalato dal Borgianni mentre, alla muta presenza di un teschio, sembra discorrere animatamente con il crocifisso alla stregua di un don Camillo ante litteram.

Di Giovan Battista Caracciolo, detto il Battistello, vi è poi, siglata, un’inedita Testa di cavaliere (fig. 6), dagli occhi penetranti, che sembra parlarci e richiama altri esiti del pittore napoletano, seguace del Caravaggio. Il modello sembra lo stesso adoperato per l’Ecce Homo di collezione privata, posizionato dalla critica alla metà degli anni Venti e per il San Giovanni Battista della raccolta Emilio Greco, anche esso collocato nello stesso periodo cronologico del precedente.

Ricordo di aver visto lo stesso dipinto scorrendo i cataloghi di Sotheby’s degli anni Novanta, ma non posso precisare se trattasi di una replica autografa o della stessa opera in esame, di recente entrata nella collezione.

Gli stranieri sono ampiamente rappresentati e tra questi mi ha incuriosito un San Girolamo penitente (fig. 7) attribuito a Hendrick Bloemaert da Cecilia Grilli, che a me, ad un primo esame, è parso opera degli anni siciliani di Matthias Stomer, un nordico a lungo attico in Italia e visibile in vari musei tra cui Capodimonte.

Il santo ritratto a mezzo busto è avvolto in un ampio mantello dalle sfumature tendenti al porpora e si colpisce il petto con una mano, mentre con l’altra sostiene in alto un crocifisso sotto lo sguardo di un teschio ammonitore, un’iconografia di successo per anni soprattutto fra i seguaci nordici del Caravaggio, che l’autore del dipinto rende con una pennellata sciolta e vivace e con una materia pittorica stesa per velature, che dà trasparenza e rilievo alla figura stagliata sul fondo scuro.
Ancora più interessante vi è poi un’Incoronazione di spine (fig. 8) eseguita nel 1626, firmata e datata, di Pedro Nugnez Del Valle, un poco noto caravaggesco, a volte scambiato per il pittore lombardo Cecco di Caravaggio. Il dipinto da poco correttamente attribuito, grazie alla scoperta della firma nel corso del restauro, costituisce un’importante aggiunta al catalogo dell’artista e presenta numerose analogia con la sua opera più celebre un Giaele e Sisara, conservato nella National Gallery di Dublino; infatti l’armatura del soldato sulla sinistra è una versione a mezzo busto del collega che si trova in piedi sul lato mancino nella tela irlandese, mentre la fisionomia del Cristo e dei suoi aguzzini sono molto simili a quelli di personaggi ritratti dal pittore in altri suoi quadri descritti da Angulo Iniguez, autore di alcuni fondamentali contributi sul Nunez Del Valle.

Tra i capolavori vi è poi un San Girolamo nello studio (fig. 9) assegnato a Valentin De Boulogne da Marina Mojana, anche se sull’autografia ha posto qualche dubbio Claudio Strinati.

Il dipinto, purtroppo molto rovinato, è di grande qualità, mostra spiccate analogie con la produzione degli anni Venti del maestro nella quale abbondano santi e profeti, resi con una tavolozza giocata sui toni del bruno, del carminio e del bianco, colori caldi stesi con pennellate precise, dense di materia pittorica nei punti di luce e applicate con effetto di velatura nelle zone di ombra e penombra. Anche la tipologia del San Girolamo, dai capelli brizzolati ma ancora folti, dal capo reclinato e dal mento appoggiato alla mano sinistra, si ritrova identica in altre opere certe del Valentin, quali l’Angelo appare a San Giuseppe di Londra, eseguito intorno al 1625 ed il San Girolamo conservato a Wallesley, negli Stati Uniti.
La pittura sacra è poco presente, ma una vera chicca è rappresentata dalla Madonna col Bambino ed un angelo (fig. 10) di Flaminio Torri, una figura pregnante del secondo Seicento emiliano, nella cui pittura è possibile rivelare echi oltre che reniani, anche carraceschi e in particolare ludovichiani. Il dipinto in esame è un inedito, ma non una sorpresa per gli specialisti dell’artista, per la conoscenza sul mercato di esemplari simili, come ha evidenziato nella scheda del catalogo Daniele Benati.

L’immagine agro dolce della Vergine dai lunghi capelli sciolti sulle spalle evoca un modello caro al Cantarini, mentre la figura del Bambino e dell’angelo a mani giunte è abituale nel repertorio del Torri sacro.
Di una grazia soave è poi l’Annunciazione (fig. 11) eseguita da Francesco Albani, uno dei tanti bolognesi scesi a Roma, prima come assistente di Annibale Carracci e poi a lungo attivo come decoratore e specialista in paesaggi, scene mitologiche e pale d’altare in cui è evidente la tendenza alla semplificazione compositiva.

Il volto della Vergine richiama quello di altre famosi lavori dell’Albani, come la stessa Sacra famiglia con San Giovannino, anche essa in collezione Amata, mentre l’angelo, un po’ stereotipato, nell’annunciare la lieta novella, offre un fiore con candido gesto.
Numerosi sono i paesaggi tra questi quello di Giovanni Francesco Grimaldi è uno dei più intriganti, sia per la relativa rarità dell’autore, uno degli specialisti più richiesti a Roma dalle famiglie aristocratiche, collaboratore di Gaspard Dughet, abile sia sulla tela che ad affresco. Nell’opera in esame, un Paesaggio con figure (fig. 12), attribuito con certezza all’artista dal Benati, sono presenti palpabili rimandi ad opere del Grimaldi sia nel repertorio dei personaggi raffigurati che nello stesso carattere arioso del paesaggio. Per la collocazione cronologica del quadro la critica più avvertita è propensa ad una data piuttosto inoltrata nel percorso del pittore bolognese, in considerazione delle analogie con gli affreschi nel piano nobile in palazzo Santacroce.

Veramente prezioso il piccolo dipinto di Claude Lorrain (fig. 13) eseguito con una pennellata delicata da rimembrare la grazia di un miniatore: all’orizzonte si intravede un tramonto infuocato con i contadini e le bestie al pascolo sulle rive di un placido laghetto immersi tra masse frondose di alberi disposte a gruppi, a dominare la scena fino ai piedi di monti lontani, evocando mondi di favola ed allontanando sempre più il regno della natura da quello immaginario dell’arte.

Tra i dipinti più sconvolgenti, acquisiti di recente nella raccolta, vi sono due esiti di Alessandro Turchi detto l’Orbetto (fig. 14 – 15) dominati da sensazionali effetti di luce ed ombre di chiara ascendenza caravaggesca, che rendono l’incarnato di un viola esasperato livido, anossico, cianotico nella prima tela, Giaele e Sisara, dominata dallo scatenarsi della violenza e delle passioni, mentre la seconda, raffigurante un Giovane musicista, si distingue per un trapasso di luce morbido e delicato e per la sua maniera raffinata di rendere maliziosamente lo splendido corpo ignudo, a malapena coperto da un panno che lascia esposto una lusinghiera porzione di inguine imberbe, che avrebbe fatto impazzire lo stesso Caravaggio.



E completiamo questa affascinante cavalcata attraverso i secoli con una solenne Deposizione (fig. 16) di Palma il giovane, pronipote del più celebre Palma il Vecchio. Jacopo Negretti, questo era il suo vero nome, dipinse molto sempre con gusto manierista tosco romano, come si evince dall’eleganza con la quale definisce il panno che ricopre il corpo del Cristo e predilesse i temi della Deposizione e della Pietà, soggetti molto richiesti dai committenti dell’epoca. Egli subì l’influsso del Tintoretto nel raffinato equilibrio di luci e di colori, che modellano la figura del Redentore e dei suoi carnefici e ne scandiscono solennemente le fisionomie.

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