domenica 18 marzo 2012

La finanza islamica ed il banchiere dei poveri

1/4/2007

Un modello economico alternativo per il XXI secolo



Mentre lo statalismo socialista è miseramente crollato ed il liberismo capitalista, divenuto selvaggio, sta dimostrando tutti i suoi limiti, all’orizzonte si profila un terzo progetto, costituito dalla finanza islamica, sconosciuto agli stessi specialisti, che potrebbe costituire il modello vincente nel XXI secolo.
Nel 1982 le istituzioni finanziarie islamiche possedevano un capitale che oggi è cresciuto più di cinquanta volte e si avvia, grazie agli introiti del petrolio, a superare i trecento miliardi dollari, con un tasso di crescita superiore al 15% annuo. Una liquidità smisurata che può fare da ago della bilancia nell’economia mondiale.
Essa è fondata su regole apparentemente poco competitive, rispettose dell’ortodossia coranica ed è presente in oltre quaranta nazioni con centinaia di banche, che possono contare sul fiume in piena dei capitali provenienti dal mercato dell’oro nero.
Il Corano considera l’usura (riba) uno dei peccati più gravi che si possano commettere e ritiene vietato (haram) qualsiasi tasso di interesse, un paradigma agli antipodi del concetto di banca occidentale. Non per questo nell’islam i capitali non hanno alcun costo. La religione proibisce la determinazione a priori della loro remunerazione, ma stabilisce che ai proprietari del capitale vada una quota del denaro prodotto dal suo impiego, percentuale che non si può conoscere in anticipo. Al prestatore viene richiesto di condividere i rischi dell’investimento. Questa circostanza fa si che la banca partecipi in prima persona alle attività produttive e commerciali e sia molto attenta che vadano a buon fine e siano in linea con i principi islamici, una banca etica attenta sia alla corretta utilizzazione del capitale che ai risultati economici.
Una conduzione che sorprende i banchieri occidentali, abituati a lucrare sui capitali e a disinteressarsi completamente a come, da chi e per quale scopo vengano utilizzati.
I principi sui quali si basa la finanza islamica sono semplici e possono riassumersi in poche regole:
1) Qualsiasi pagamento predeterminato oltre e in aggiunta all’importo di denaro prestato è vietato.
2) Colui che presta deve dividere i profitti o le perdite derivanti dall’impresa commerciale nella quale viene investito il denaro.
3) Lucrare denaro dal denaro è contrario agli insegnamenti del Corano.
4) Qualsiasi operazione finanziaria in cui incertezza, rischio o speculazione sono presenti è proibita
5) Gli investimenti devono favorire esclusivamente pratiche e prodotti che non siano contrari agli insegnamenti islamici.
Nella civiltà islamica alle attività meramente lucrative viene contrapposta la solidarietà, al tornaconto individuale il benessere sociale.
Una differenza planetaria rispetto alla finanza occidentale, impegnata a perseguire unicamente l’arricchimento individuale e dominata dall’egoismo e dalla ricerca spasmodica del profitto.
Soltanto l’attività dell’uomo, secondo Maometto, il biblico sudore della fronte può eticamente e giuridicamente giustificare l’arricchimento. Con queste coordinate e con il rifiuto dell’usura nel senso più ampio del termine si sono affermate forme di investimento nelle quali l’utile, quale risultato di un’attività d’impresa,  è ripartito tra i soci che dividono anche il rischio imprenditoriale.
La finanza islamica presenta certamente dei punti deboli tra cui l’esclusione dal mercato secondario, infatti il divieto di contrattare e concludere investimenti con le banche che praticano tassi di interesse non permette operazioni economiche con il mercato occidentale. Sono altresì ai margini del mercato delle carte di credito.
Sul mercato azionario i petrol dollari scelgono investimenti unicamente su società conformi ai dettati della dottrina, in base ad un listino di titoli (molto ampio in verità) approvato da un comitato di saggi. Non saranno acquistati di conseguenza azioni di aziende che commercializzano carne di maiale o che vogliano produrre bevande alcoliche o costruire una rete di casinò.
A fronte di queste limitazioni alcuni vantaggi sono innegabili come la riduzione dell’inflazione dovuta ad un uso produttivo della moneta ed un attento controllo da parte della banca sugli investimenti.
Un approccio al denaro poco noto agli occidentali, che ha avuto un sorprendente riconoscimento con l’assegnazione nel 2006 del premio Nobel per la pace al banchiere bengalese Muhammad Yunus.
Un alloro che dimostra lo stretto legame tra pace ed economia, perché una pace duratura nel mondo potrà essere conseguita soltanto quando si sarà riusciti a superare la povertà, che colpisce ancora ampi strati di popolazione e quando sarà vicino a realizzarsi l’auspicio di Yunus: ”Un giorno i nostri nipoti dovranno andare nei musei per vedere cosa fosse la povertà”.
Nato nel Bengala, una delle regioni più derelitte del Bangladesh, Yunus consegue negli Stati Uniti importanti titoli accademici, ma rinuncia ad una brillante carriera di professore universitario in America per tornare nel suo paese e dedicarsi ad aiutare una delle popolazioni più povere del mondo.
Immerso nella realtà del suo paese scoprì come le teorie economiche che egli insegnava fossero lontane dalla cruda vita economica del mondo rurale. Si convinse che l’estrema povertà della popolazione non dipendeva tanto dall’ignoranza o dalla pigrizia, quanto dall’inesistente sostegno finanziario. Volle mettere la scienza economica al servizio degli ultimi della terra ed ideò una nuova formula finanziaria: il microcredito. 
Cominciò a girare a piedi con i suoi collaboratori il paese villaggio per villaggio, concedendo alla comunità il prestito di pochi quanto indispensabili dollari, per favorire piccole iniziative imprenditoriali. Lentamente si venne a creare un circolo virtuoso con vistose ricadute sull’emancipazione delle donne, invogliate ad unirsi in cooperative che coinvolgessero ampi strati della popolazione.
Il suo primo prestito fu di appena 27 dollari ad un gruppo di lavoratrici di un villaggio che producevano mobili di bambù. Esse producevano per chi prestava loro denaro e ciò riduceva il loro margine di guadagno obbligandole alla miseria.
Nessuna banca tradizionale concedeva prestiti a chi non offrisse garanzie, né vi era interesse per il finanziamento di piccoli progetti con basso profitto ed un rischio potenziale molto alto.
Nel 1976 Yunus fondò la Grameen Bank, per fornire prestiti ai poveri, basandosi sulla fiducia e non sulla solvibilità. Per garantire il rimborso si prestava denaro a più persone, ognuna delle quali era obbligata in solido alla restituzione. Con tale sistema, oltre ad un diffuso microcredito, si sono potuti realizzare moderni sistema di irrigazione e di pesca e soprattutto finanziare piccole imprenditrici donne, sviluppando l’emancipazione femminile in una nazione islamica che riserva al gentil sesso una posizione assolutamente subalterna e dove una vedova o anche una separata sono veramente gli ultimi della terra.
La Grameen ha prodotto una benefica ventata rivoluzionaria nell’interno della stessa Banca mondiale, che ha cominciato ad avviare progetti simili, trasformando l’idea del microcredito in un potente strumento di sviluppo finanziario ed economico in oltre 100 nazioni dall’Uganda agli stessi Stati Uniti, dove viene incontro alle esigenze creditizie delle cospicue fette di povertà prodotte da un sistema capitalistico spietato.
In trenta anni la Grameen Bank ha erogato prestiti a oltre 5 milioni di persone per un totale di 5 miliardi di dollari, con un tasso di restituzione superiore a quello delle banche occidentali. 
Il fondamentalismo religioso, contrario all’obiettivo di migliorare lo status delle donne, ha cercato nei primi anni di boicottare l’iniziativa, ma ha poi rinunciato davanti ai benefici a pioggia su tutta la popolazione ed ha fatto in modo che nel Bangladesh, dove non funziona niente, i meccanismi di restituzione della banca di Yunus funzionassero come un orologio svizzero.
Il potente messaggio di pace che ci viene da questo straordinario personaggio non può lasciarci indifferenti: la finanza è stata sempre vista col parametro del rendimento, mentre è necessario che una quota delle risorse venga destinata ad iniziative di primaria utilità sociale. 
La finanza etica è oggi una finalità da raggiungere, sia in Oriente che in Occidente, un sistema che pur rispettando i principi essenziali del credito (trasparenza e vitalità economica) non si renda complice di tutte quelle attività che ostacolano la pace e violano i diritti e le aspettative dell’umanità, quali il commercio delle armi, le produzioni gravemente lesive ella salute e dell’ambiente, le attività fondate sullo sfruttamento dei minori e sulla repressione delle libertà civili.

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