lunedì 5 marzo 2012

LA PITTURA NAPOLETANA ALL’ARRIVO DEL CARAVAGGIO


Chi volesse conoscere la situazione della pittura a Napoli sul far del Seicento dovrebbe semplicemente entrare nella chiesa di S. Maria la Nova, alzare gli occhi al cielo e contemplare lo splendido soffitto cassettonato, che da solo costituisce una splendida pinacoteca di quasi cinquanta dipinti ed una vera e propria antologia delle correnti pittoriche napoletane alla vigilia della venuta in città del Caravaggio ed all’affermarsi del suo verbo. Possiamo così ammirare la maniera dolce e pastosa e la cosiddetta riforma toscana in tutte le possibili declinazioni, oltre a parlate minori, che affollavano la temperie artistica del nuovo secolo. Al centro i giganteschi quadroni di Francesco Curia, di Girolamo Imparato e di Fabrizio Santafede, ai lati i siciliani Giovan Bernardino Azzolino e Luigi Rodriguez, il greculo Belisario Corinzio ed il fiammingo Cesare Smet.
Una seconda ghiotta occasione di approfondimento è costituita dal secondo piano del museo di Capodimonte, ove, un lunghissimo corridoio conduce, novella bussola, verso l’abbacinante luce che promana vigorosamente dalla “Flagellazione” del Caravaggio. Man mano che scorrono i secoli, sala dopo sala, ci si avvicina sempre più allo spettacolare capolavoro, che fa da spartiacque tra due modi di dipingere assolutamente antitetici.Raggiunta la meta, ecco a sinistra i primi seguaci partenopei del Merisi, degnamente rappresentati, da Battistello , Sellitto e Vitale. Si conclude così il nostro viaggio che andiamo ora a cominciare.
In occasione della memorabile mostra “Civiltà del Seicento a Napoli” non fu riservato spazio alcuno ai pittori tardo manieristi protrudenti nel “secolo d’oro”, anche se nei termini cronologici della rassegna,dal 1606 al 1705, sarebbero rientrati decine di artisti, alcuni di grande rilievo, i quali lavorarono indisturbati e pieni di committenze a carattere devozionale fino agli anni Quaranta, limitandosi al massimo ad “irrobustire gli scuri”.
Negli ultimi due decenni del Cinquecento si intrecciano più parlate sul panorama artistico napoletano. Tra queste le tre principali sono la maniera “dolce e pastosa”, proveniente da Roma e facente capo agli Zuccari ed ai loro seguaci tra cui Bartolomeo Spranger. Una corrente “barroccesca”, anche essa in arrivo dalla città eterna. Ed infine un innesto di riforma toscana rivisitato in chiave venezieggiante,che vede come esponente di punta Fabrizio Santafede e si rifà alle opere di Santi di Tito, del Passignano e del Cigoli.
Le figure rappresentate nei dipinti tardo cinquecenteschi sono di maniera, non certo copiate da un modello, come avverrà costantemente con il Merisi, che sceglierà i suoi personaggi tra la folla partenopea.
A partire dai primi anni del secolo, senza attendere il prorompente arrivo in città del Caravaggio, si avverte nell’aria che qualche cosa sta succedendo e lentamente tutti gli artisti, anche quelli di prestigio cominciano a rivedere le loro posizioni cercando di aggiornarsi. Il grande giubileo del 1600 ha condotto a Roma turbe di fedeli e tra questi, anche se non è documentato con precisione, sicuramente molti pittori, i quali non avevano difficoltà ad ammirare le principali opere del grande lombardo, in gran parte a collocazione pubblica.
Una lampante dimostrazione di quanto asserito è rappresentata da un disegno del Corenzio, conservato nel museo di Capodimonte, copia con varianti di una delle tele laterali della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi: ”La chiamata di San Matteo”. Il foglio risente ancora della fase manieristica di Belisario, un artista che notoriamente non venne influenzato dalle nuove mode e continuò imperterrito sulla sua strada, ras incontrastato nelle grandi imprese decorative a Napoli e nel vice regno fino al 1643, quando, ultra ottantenne, chiuse in gloria la sua attività, precipitando da imponenti impalcature nella chiesa dei Ss. Severino e Sossio.
Più volte la critica è andata alla ricerca di precursori meridionali del Caravaggio ed alcuni autori hanno creduto di trovare in alcune opere di Aert Mytens, un fiammingo conosciuto anche come Rinaldo Fiammingo, dai segni inequivocabili del nuovo verbo. In particolare un “Cristo deriso”, iniziato a Napoli e completato a Roma, certamente prima del 1602, anno di morte del pittore, presenta effetti chiaroscurali così manifesti ed un’azione drammatica talmente incalzante, da far credere ad occhi non smaliziati di trovarsi innanzi a sconvolgenti novità. L’effetto di lume notturno adoperato dal Mytens richiama però Luca Cambiaso e non è adoperato con fini naturalistici, mentre la carica di realtà rappresentata sulla tela è assolutamente generica. Ed inoltre il modo di contornare i personaggi con precisione disegnativa ci dimostra che la pittura del fiammingo è perfettamente in linea con i dettami del Manierismo internazionale di Spranger e di Goltius, uno stile di grande successo che imperversò all’epoca in tutta Europa.
Ma sarà soltanto la sconvolgente lettura diretta della realtà e la novità di una luce che viene dall’alto, a definire, con il magistrale gioco del chiaro scuro, i personaggi. L’arrivo in città di questa rivoluzione ci farà apparire all’improvviso ridicole caricature, ai limiti del grottesco, le opere degli artisti all’ora in auge in città, dal Curia all’Imparato, dal Rodriguez al Corenzio, dal Borghese all’Azzolino.
Tutti si convincono di colpo che il modo di rappresentare la pittura sacra ha subito una svolta definitiva e gli artisti cercano di correre ai ripari, calcando le ombre e dando agli sfondi una consistenza più tangibile, ma per i tardo manieristi partenopei è una battaglia persa in partenza. La ricchezza del mercato napoletano è però ampia e differenziata e molti pittori continueranno tranquillamente a lavorare a pieno ritmo fino a metà secolo, soddisfacendo decorosamente una committenza devozionale.

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